Eric Calderone A.K.A the Dude Who Makes It Possible to Listen to Lady Gaga *
My first english review, my first review of a guitarist.
It must be clear that I'm not a guitarist, so maybe I'm gonna say some bullshits (with grammar errors too), but I'll try to speak about this guy anyway because I think he's a fuckin' phenomenon.
I discovered him a couple of days ago, while searching for some covers on YouTube.
His name is Eric Calderone, an american guitarist (of italian origin, I guess ...) that turns almost everything into gold ... pardon, metal.
From soundtracks, to video games themes, to popular songs sung by LMFAO, Ke$ha, Rihanna, or Lady Gaga.
Check out a couple of his videos before continuing (here are some of my favourite) ...
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Done?
I'm an editor and video maker, so the first thing I liked was the way he shot the videos (image and sound editing).
Image: only him, with funny nerd t-shirts (or costumes/make up) often related to the song, and his guitar, a beautiful military style Guerilla. Nothing else, except for some posters in the back.
There are also a couple of cool montages structured like parodies ([Link removed - login to see] and [Link removed - login to see], for example), matte shots ([Link removed - login to see]) and videos completed by images taken from the movie related to the cover he's playing ([Link removed - login to see]).
After turning on the camera, he winks at us and starts to " play the guitar just like ringing a bell " (... I hope you got my brilliant citation). He seems to have a lot fun while doing this damn difficult things ...
Sound: I'm a rock/metal music fan, so another thing I liked was the backing track. I really appreciated the arrangements (especially the drums and the second guitar) and the work he has done with the voices of the original tracks. I also found really interesting the way he put the movie cues into the backing tracks of the soundracks covers.
Last but not least, even if he looks like a cartoon, this guy is a genius. With his exceptional arrangements he makes the songs really better than the originals. He also has a super technical way to play that remembers me of [Link removed - login to see] (especially here: [Link removed - login to see]). Shredding, fingerpicking and a super fast tapping that makes your brain go crazy.
All the songs performed in the videos can be downloaded for free on his [Link removed - login to see] (notice the word free ... I would have paid for them!). He also recorded two albums (Hollywood Shred, 2010, and No More Heroes, 2012) that can be found on iTunes.
This guy has definitely become one of my heros, and he made me proud of being italian for the first time in my life.
Enjoy!
[Link removed - login to see]
_______________________________________________
* The title is a citation. " Dude makes it possible to listen to Lady Gaga " is the title used by a YouTube user to describe the Bad Romance by Lady Gaga Meets Metal video. I found it funny, 'cause I thought the dude got the point ...
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Erock (Videography Review)
Posted : 12 years, 2 months ago on 19 September 2012 07:12 (A review of No More Heroes)0 comments, Reply to this entry
The Day the Earth Stood Still
Posted : 13 years, 8 months ago on 6 March 2011 03:34 (A review of The Day the Earth Stood Still)The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra)
1951
USA
Regia: Robert Wise.
Produzione: Julian Blaustein per 20th Century Fox.
Sceneggiatura: Edmund H. North, dal racconto Farewell to the Master di Harry Bates.
Fotografia: Leo Tover (bianco e nero).
Montaggio: William Reynolds.
Scenografia: Addison Hehr, Lyle Wheeler.
Effetti speciali: Fred Sersen, Ray Kellog, L.B. Abbott, Emil Kosa.
Musica: Bernard Herrmann.
Costumi: Perkins Bailey, Travilla.
Cast: Michael Rennie (Klaatu/Carpenter), Patricia Neal (Helen Benson), Hugh Marlowe (Tom Stevens), Sam Jaffe (prof. Jacob Barnhardt), Billy Gray (Bobby Benson).
Durata: 92’.
Remake: The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra) (Scott Derrickson, 2008).
Note: vincitore ai Golden Globe del premio per il miglior film teso a favorire la cooperazione internazionale; nomination per la miglior colonna sonora.
La genesi:
“ Ero alla 20th Century Fox quando ricevetti una telefonata di Darryl Zanuck. Mi disse che voleva che incontrassi un produttore di nome Julian Blaustein. Secondo Zanuck, Blaustein aveva per le mani una sceneggiatura che avrei potuto trovare molto interessante. Ero in una pausa di produzione, e così incontrai Julian, che non avevo mai visto prima e che mi passò la sceneggiatura. Appena letta, me ne innamorai.
Pensai che fosse un meraviglioso film di fantascienza, non solo perché conteneva un forte messaggio pacifista, e io sono sempre stato un convinto antimilitarista, ma anche perché non ho mai smesso di credere nell’esistenza degli UFO. Penso che considerarsi gli unici esseri viventi intelligenti di tutto l’universo sia molto egocentrico. Inoltre, mi attraeva molto l’idea che in altri mondi esistessero persone sensibili e pacifiche, e non per forza mostri ostili e terrificanti. “ [1]
Con queste parole Robert Wise esprime l’entusiasmo provato dinnanzi alla prima bozza di sceneggiatura consegnatagli da Julian Blaustein.
Ma facciamo un passo indietro. Come si giunge alla suddetta bozza?
Secondo Blaustein stesso, l’idea nasce da un’espressione sovente riportata sui giornali del periodo: offensiva di pace. Utilizzata per indicare le forti pressioni esercitate dall’URSS sui paesi nemici per indurli a stipulare una tregua, questa contraddizione in termini (offensiva/pace) induce Julian a riflettere sulla necessità di esortare il pubblico a meditare con attenzione sul concetto di non belligeranza.
Ma come raggiungere questo obiettivo senza scadere nella propaganda, senza originare un prodotto meramente informativo? La risposta si cela nella fantascienza.
Dopo aver esaminato un cospicuo numero di romanzi e racconti, Julian trova finalmente ciò che fa al caso suo: Farewell to the Master di Harry Bates.
Si tratta di un breve racconto pubblicato nel 1940 sul celebre pulp magazine Astounding [2].
La storia offre alcuni spunti interessanti. Due in particolare attraggono la fantasia di Blaustein:
- l’idea che l’umanità abbia raggiunto la pace sacrificando parte delle sovranità nazionali ad un organismo centrale;
- la figura di un alieno dalle sembianze umane sbarcato sulla terra ed immediatamente aggredito in quanto diverso.
Sulla base dei suddetti spunti Blaustein stende una prima bozza del soggetto.
Attingendo in parte da quest’ultima ed in parte dal racconto originale, Edmund North (lo sceneggiatore) scrive un primo accenno di testo che viene poi consegnato a Wise. Quest’ultimo (avvalendosi della collaborazione dei sopracitati colleghi) provvede a rende lo scritto maggiormente incisivo, senza tuttavia apportare dei cambiamenti sostanziali.
Nell’intelligente adattamento finale, numerosi elementi del racconto rimangono inalterati, unica eccezione il rapporto Klaatu/Gort che, differentemente rispetto alla storia originale, vede il secondo al servizio del primo (particolarità non indifferente, vista la diffusa considerazione dei robot come minacciosi Golem intenti a distruggere i propri artefici).
La scelta del cast:
Michael Rennie (Klaatu):
Fin dall’inizio Julian Blaustein ritiene che il ruolo di Klaatu debba essere affidato ad un attore emergente, non associabile dal pubblico a personaggi di altri film.
Incurante di questo parere, Darryl Zanuck consegna il copione a Spencer Tracy, all’apice della carriera.
Julian si oppone, timoroso che la popolarità di Tracy possa minare la credibilità del suo ruolo, ed indica Claude Rains come possibile aspirante alla parte. Fortemente impegnato in una produzione teatrale a New York, Rains rifiuta.
“ Stavamo pensando a chi potesse interpretare altrimenti la parte, quando ricevemmo un messaggio di Darryl Zanuck. Diceva di essere appena tornato da un viaggio in Europa, e di avere visto a Londra un giovane attore di teatro che lo aveva colpito molto. Era Michael Rennie, una faccia del tutto nuova, completamente sconosciuta al pubblico americano. Proprio quello che ci voleva. “ [3]
Come Robert Wise stesso afferma, la parte viene poi “ definitivamente ” affidata a Michael Rennie.
Alto, volto da asceta, completamente misconosciuto: il perfetto visitatore venuto dallo spazio.
Patricia Neal (Helen Benson), Hugh Marlowe (Tom Stevens), Billy Gray (Bobby Benson):
Per il ruolo di Helen Benson la scelta del regista cade quasi immediatamente sulla professionale Patricia Neal. Già diretta da Wise in Three Secrets (Tre segreti, 1950) Patricia, libera da impegni, affascinata dalla sceneggiatura ed entusiasta di collaborare nuovamente con il regista, accetta immediatamente la parte, apportando un contributo fondamentale al film.
Ad affiancarla, Hugh Marlowe ed il giovanissimo Billy Gray. Di soli dieci anni, sveglio ed intuitivo, Billy pare perfettamente a suo agio a prescindere dalla scena e dal contesto, oltre a necessitare di un limitato numero di direttive sul set.
Sam Jaffe (prof. Jacob Barnhardt):
Selezionato da Blaustein, ma inizialmente rifiutato dal direttore del cast a causa delle sue convinzioni politiche, Sam viene “ assoldato ” grazie all’intercessione di Zanuck, che esorta Julien a persistere nella sua scelta nonostante il parere discordante dei colleghi.
In un clima politico caratterizzato da un diffuso atteggiamento di diffidenza verso qualsiasi accenno di adesione al partito comunista, le idee politiche “ scomode ” di Sam non giovano alla promozione del film. Quest’ultimo sarà infatti attaccato non tanto per le tematiche trattate quanto per la partecipazione di una figura, a parere di molti, sostenitrice della “ minaccia rossa ”.
Tutto ciò non nega ovviamente la straordinaria credibilità che Jaffe riesce a conferire al suo personaggio.
Lock Martin (Gort):
“ Volevamo qualcuno di molto alto, ma neanche i giocatori di basket a quell’epoca raggiungevano l’altezza che stavamo cercando. A qualcuno venne in mente l’usciere del Grauman’s Chinese Theatre di Hollywood. Era Lock Martin, e la sua altezza arrivava a 2 metri e 20. “ [4]
Come confermano le parole del regista stesso, Lock Martin (trascorso da “ addetto al benvenuto clienti ” presso le fattorie Arden) viene notato ed ingaggiato in virtù della sua straordinaria altezza.
Il ruolo per lui prescelto è quello dell’automa Gort, non realizzabile altrimenti (artigianalmente) a causa del costo troppo elevato.
Costretto ad indossare un ingombrante costume in gommapiuma rivestita di alluminio (eccezion fatta per la maschera in metallo), Lock riesce a resistere in scena solo per brevi intervalli di tempo (tanto da dover essere sostituito da un automa inanimato in alcune scene di lunga durata).
Ad accentuare l’imponenza del robot, delle zeppe di circa 15 cm sistemate sotto i piedi dell’attore ed appositamente studiate per consentirgli di camminare senza barcollare.
I tecnici degli effetti speciali adottano poi un altro accorgimento importante: sistemare alcuni prismi all’altezza del volto di Martin per consentirgli di scorgere 30 centimetri al di sopra del cranio (l’altezza del costume è tale da determinare un notevole scarto tra la testa del robot e quella di Lock, situata appunto 30 centimetri più in basso rispetto al casco).
La colonna sonora:
Fortemente convinto dell’importanza del contributo offerto dalla colonna sonora alle sequenze sceniche, Wise delega il gravoso compito di realizzazione delle musiche all’eclettico Bernard Herrmann.
Ma spendiamo qualche parola in più su questa straordinaria figura.
Insediatosi a New York in qualità di compositore (anche radiofonico), Herrmann entra in contatto con Hollywood solo occasionalmente. Impegnato nella direzione dell’orchestra sinfonica della CBS, svolge di tanto in tanto il ruolo di compositore cinematografico scegliendo tra le numerose proposte che gli vengono offerte. Due in particolare sono le occasioni sfruttate da Bernard per giungere all’apice del successo: la collaborazione con Orson Welles per Citizen Kane (Quarto potere, 1941) e soprattutto il contributo offerto in The Devil and Daniel Webster (L’oro del demonio, 1941) di William Dieterle, che gli vale la conquista dell’Oscar. L’anno successivo va ricordata una nuova collaborazione con Welles per The Magnificent Ambersons (L’orgoglio degli Amberson, 1942).
Sul finire degli anni ‘40, dopo lo scioglimento dell’orchestra sinfonica, Herrmann pensa sia giunto il momento di emigrare definitivamente a Hollywood, ed è qui che nel 1951 viene ingaggiato da Wise per la composizione della colonna sonora di Ultimatum alla Terra.
Indipendente nelle scelte musicali, desideroso di godere di una piena libertà d’azione, Bernard vuole creare un suono insolito.
La convinzione di base è che la musica non debba contribuire a delineare il carattere dei personaggi, ma debba invece creare un‘atmosfera particolare. Per raggiungere il suddetto obiettivo, Herrmann scrive partiture per un’orchestra composta da un’ampia sezione di ottoni, arpe e percussioni (anziché dalla tradizionale sezione di archi e legni) ed arricchisce il tutto con una serie di strumenti elettronici tra i quali figura il Theremin.
Composto da due antenne (una verticale ed una orizzontale) capaci di produrre un particolare suono se sfiorate con le mani, questo strumento suggerisce l’idea di una presenza extraterrestre ed intensifica il senso di disagio ed inquietudine nello spettatore, col risultato di conferire all’ambientazione del film (la Terra) le fattezze di un mondo alieno.
A partire da questo momento, il Theremin diverrà un vero e proprio cliché dei film di fantascienza.
L’utilizzo di questa strumentazione assolutamente unica rende la colonna sonora parte integrante di ciò che oggi definiremmo effetti sonori.
Il titolo:
Interessante è ricordare brevemente la gestazione del titolo, ultimo accorgimento che precede la distribuzione del film.
Invitato a cena da Darryl Zanuck, il vicepresidente responsabile del marketing propone come possibile titolo The Day the World Stopped, con allusione al momento di “ stallo ” dell’intero pianeta dovuto alla sottrazione di energia elettrica operata da Gort su ordine di Klaatu.
Su indicazione di Blaustein, il titolo viene poi modificato in The Day the Earth Stood Still, ritenuto più incisivo rispetto al precedente.
L’anteprima:
Dopo una prima visione del film, Darryl Zanuck propone di procedere con la distribuzione immediata.
Il parere di Zanuck è però ancora una volta in contrasto con quello di Blaustein, che ritiene sia necessario proiettare il film in anteprima per testare le reazioni del pubblico.
Approfittando di una temporanea assenza di Zanuck, Julien assume il comando ed organizza una prima proiezione del film.
Il risultato è apparentemente deludente. Numerose scene relative alla mobilitazione dell’esercito (contro la minaccia aliena) suscitano le risate del pubblico.
Tuttavia, con il procedere della storia (e soprattutto, con l’apparizione di Gort) l’atmosfera cambia: l’ilarità si tramuta in silenzio, le risa lasciano spazio al terrore, allo stupore, al turbamento dinnanzi ad un evento di portata collettiva che non si riduce al puro e semplice intrattenimento, ma aspira a divenire spunto per una riflessione su temi tutt’altro che banali.
Il film:
Caratteristica principale di Ultimatum alla Terra è quella di essere un film realistico e credibile, credibilità e realismo ottenuti mediante tre scelte fondamentali:
- ambientare la storia in una qualsivoglia metropoli, mostrandone le strade, gli edifici, “ mischiando “ il visitatore ai cittadini locali;
- semplificare al massimo ogni artificio tecnico;
- utilizzare movimenti di macchina lineari, con propensione a riprendere il protagonista in ombra e di spalle (in modo tale da accentuare l’alone di mistero che lo circonda).
Il tutto potenziato dal bianco e nero.
Sfruttando la verosimiglianza della storia, Wise stimola l’interesse dello spettatore, esprimendo al contempo una personale concezione di ritmo. Esso non consiste nella velocità di un film, ma nel saper catturare fin dall’inizio l’attenzione del pubblico.
Grazie a questa geniale intuizione, Ultimatum alla Terra otterrà un successo inaspettato ed inizierà ad essere definito un classico della fantascienza.
_______________________________________________
[1] Intervista concessa a Harry Kreisler nel febbraio 1998 per il programma Conversations With History, prodotto dall’Instutute of International Studies dell’Università di Berkeley, California.
[2] Il racconto appare in Italia solo nel 1952, tra le pagine della rivista di fantascienza Scienza Fantastica.
Nei decenni successivi, la traduzione italiana del titolo (Uomo di carne ... uomo d’acciaio …) subirà dei mutamenti in: Klaatu. Prologo di un’invasione; Ultimatum alla terra; Addio al padrone.
[3] Conversations With History, cit.
[4] Conversations With History, cit.
1951
USA
Regia: Robert Wise.
Produzione: Julian Blaustein per 20th Century Fox.
Sceneggiatura: Edmund H. North, dal racconto Farewell to the Master di Harry Bates.
Fotografia: Leo Tover (bianco e nero).
Montaggio: William Reynolds.
Scenografia: Addison Hehr, Lyle Wheeler.
Effetti speciali: Fred Sersen, Ray Kellog, L.B. Abbott, Emil Kosa.
Musica: Bernard Herrmann.
Costumi: Perkins Bailey, Travilla.
Cast: Michael Rennie (Klaatu/Carpenter), Patricia Neal (Helen Benson), Hugh Marlowe (Tom Stevens), Sam Jaffe (prof. Jacob Barnhardt), Billy Gray (Bobby Benson).
Durata: 92’.
Remake: The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra) (Scott Derrickson, 2008).
Note: vincitore ai Golden Globe del premio per il miglior film teso a favorire la cooperazione internazionale; nomination per la miglior colonna sonora.
La genesi:
“ Ero alla 20th Century Fox quando ricevetti una telefonata di Darryl Zanuck. Mi disse che voleva che incontrassi un produttore di nome Julian Blaustein. Secondo Zanuck, Blaustein aveva per le mani una sceneggiatura che avrei potuto trovare molto interessante. Ero in una pausa di produzione, e così incontrai Julian, che non avevo mai visto prima e che mi passò la sceneggiatura. Appena letta, me ne innamorai.
Pensai che fosse un meraviglioso film di fantascienza, non solo perché conteneva un forte messaggio pacifista, e io sono sempre stato un convinto antimilitarista, ma anche perché non ho mai smesso di credere nell’esistenza degli UFO. Penso che considerarsi gli unici esseri viventi intelligenti di tutto l’universo sia molto egocentrico. Inoltre, mi attraeva molto l’idea che in altri mondi esistessero persone sensibili e pacifiche, e non per forza mostri ostili e terrificanti. “ [1]
R. Wise
Con queste parole Robert Wise esprime l’entusiasmo provato dinnanzi alla prima bozza di sceneggiatura consegnatagli da Julian Blaustein.
Ma facciamo un passo indietro. Come si giunge alla suddetta bozza?
Secondo Blaustein stesso, l’idea nasce da un’espressione sovente riportata sui giornali del periodo: offensiva di pace. Utilizzata per indicare le forti pressioni esercitate dall’URSS sui paesi nemici per indurli a stipulare una tregua, questa contraddizione in termini (offensiva/pace) induce Julian a riflettere sulla necessità di esortare il pubblico a meditare con attenzione sul concetto di non belligeranza.
Ma come raggiungere questo obiettivo senza scadere nella propaganda, senza originare un prodotto meramente informativo? La risposta si cela nella fantascienza.
Dopo aver esaminato un cospicuo numero di romanzi e racconti, Julian trova finalmente ciò che fa al caso suo: Farewell to the Master di Harry Bates.
Si tratta di un breve racconto pubblicato nel 1940 sul celebre pulp magazine Astounding [2].
La storia offre alcuni spunti interessanti. Due in particolare attraggono la fantasia di Blaustein:
- l’idea che l’umanità abbia raggiunto la pace sacrificando parte delle sovranità nazionali ad un organismo centrale;
- la figura di un alieno dalle sembianze umane sbarcato sulla terra ed immediatamente aggredito in quanto diverso.
Sulla base dei suddetti spunti Blaustein stende una prima bozza del soggetto.
Attingendo in parte da quest’ultima ed in parte dal racconto originale, Edmund North (lo sceneggiatore) scrive un primo accenno di testo che viene poi consegnato a Wise. Quest’ultimo (avvalendosi della collaborazione dei sopracitati colleghi) provvede a rende lo scritto maggiormente incisivo, senza tuttavia apportare dei cambiamenti sostanziali.
Nell’intelligente adattamento finale, numerosi elementi del racconto rimangono inalterati, unica eccezione il rapporto Klaatu/Gort che, differentemente rispetto alla storia originale, vede il secondo al servizio del primo (particolarità non indifferente, vista la diffusa considerazione dei robot come minacciosi Golem intenti a distruggere i propri artefici).
La scelta del cast:
Michael Rennie (Klaatu):
Fin dall’inizio Julian Blaustein ritiene che il ruolo di Klaatu debba essere affidato ad un attore emergente, non associabile dal pubblico a personaggi di altri film.
Incurante di questo parere, Darryl Zanuck consegna il copione a Spencer Tracy, all’apice della carriera.
Julian si oppone, timoroso che la popolarità di Tracy possa minare la credibilità del suo ruolo, ed indica Claude Rains come possibile aspirante alla parte. Fortemente impegnato in una produzione teatrale a New York, Rains rifiuta.
“ Stavamo pensando a chi potesse interpretare altrimenti la parte, quando ricevemmo un messaggio di Darryl Zanuck. Diceva di essere appena tornato da un viaggio in Europa, e di avere visto a Londra un giovane attore di teatro che lo aveva colpito molto. Era Michael Rennie, una faccia del tutto nuova, completamente sconosciuta al pubblico americano. Proprio quello che ci voleva. “ [3]
Come Robert Wise stesso afferma, la parte viene poi “ definitivamente ” affidata a Michael Rennie.
Alto, volto da asceta, completamente misconosciuto: il perfetto visitatore venuto dallo spazio.
Patricia Neal (Helen Benson), Hugh Marlowe (Tom Stevens), Billy Gray (Bobby Benson):
Per il ruolo di Helen Benson la scelta del regista cade quasi immediatamente sulla professionale Patricia Neal. Già diretta da Wise in Three Secrets (Tre segreti, 1950) Patricia, libera da impegni, affascinata dalla sceneggiatura ed entusiasta di collaborare nuovamente con il regista, accetta immediatamente la parte, apportando un contributo fondamentale al film.
Ad affiancarla, Hugh Marlowe ed il giovanissimo Billy Gray. Di soli dieci anni, sveglio ed intuitivo, Billy pare perfettamente a suo agio a prescindere dalla scena e dal contesto, oltre a necessitare di un limitato numero di direttive sul set.
Sam Jaffe (prof. Jacob Barnhardt):
Selezionato da Blaustein, ma inizialmente rifiutato dal direttore del cast a causa delle sue convinzioni politiche, Sam viene “ assoldato ” grazie all’intercessione di Zanuck, che esorta Julien a persistere nella sua scelta nonostante il parere discordante dei colleghi.
In un clima politico caratterizzato da un diffuso atteggiamento di diffidenza verso qualsiasi accenno di adesione al partito comunista, le idee politiche “ scomode ” di Sam non giovano alla promozione del film. Quest’ultimo sarà infatti attaccato non tanto per le tematiche trattate quanto per la partecipazione di una figura, a parere di molti, sostenitrice della “ minaccia rossa ”.
Tutto ciò non nega ovviamente la straordinaria credibilità che Jaffe riesce a conferire al suo personaggio.
Lock Martin (Gort):
“ Volevamo qualcuno di molto alto, ma neanche i giocatori di basket a quell’epoca raggiungevano l’altezza che stavamo cercando. A qualcuno venne in mente l’usciere del Grauman’s Chinese Theatre di Hollywood. Era Lock Martin, e la sua altezza arrivava a 2 metri e 20. “ [4]
Come confermano le parole del regista stesso, Lock Martin (trascorso da “ addetto al benvenuto clienti ” presso le fattorie Arden) viene notato ed ingaggiato in virtù della sua straordinaria altezza.
Il ruolo per lui prescelto è quello dell’automa Gort, non realizzabile altrimenti (artigianalmente) a causa del costo troppo elevato.
Costretto ad indossare un ingombrante costume in gommapiuma rivestita di alluminio (eccezion fatta per la maschera in metallo), Lock riesce a resistere in scena solo per brevi intervalli di tempo (tanto da dover essere sostituito da un automa inanimato in alcune scene di lunga durata).
Ad accentuare l’imponenza del robot, delle zeppe di circa 15 cm sistemate sotto i piedi dell’attore ed appositamente studiate per consentirgli di camminare senza barcollare.
I tecnici degli effetti speciali adottano poi un altro accorgimento importante: sistemare alcuni prismi all’altezza del volto di Martin per consentirgli di scorgere 30 centimetri al di sopra del cranio (l’altezza del costume è tale da determinare un notevole scarto tra la testa del robot e quella di Lock, situata appunto 30 centimetri più in basso rispetto al casco).
La colonna sonora:
Fortemente convinto dell’importanza del contributo offerto dalla colonna sonora alle sequenze sceniche, Wise delega il gravoso compito di realizzazione delle musiche all’eclettico Bernard Herrmann.
Ma spendiamo qualche parola in più su questa straordinaria figura.
Insediatosi a New York in qualità di compositore (anche radiofonico), Herrmann entra in contatto con Hollywood solo occasionalmente. Impegnato nella direzione dell’orchestra sinfonica della CBS, svolge di tanto in tanto il ruolo di compositore cinematografico scegliendo tra le numerose proposte che gli vengono offerte. Due in particolare sono le occasioni sfruttate da Bernard per giungere all’apice del successo: la collaborazione con Orson Welles per Citizen Kane (Quarto potere, 1941) e soprattutto il contributo offerto in The Devil and Daniel Webster (L’oro del demonio, 1941) di William Dieterle, che gli vale la conquista dell’Oscar. L’anno successivo va ricordata una nuova collaborazione con Welles per The Magnificent Ambersons (L’orgoglio degli Amberson, 1942).
Sul finire degli anni ‘40, dopo lo scioglimento dell’orchestra sinfonica, Herrmann pensa sia giunto il momento di emigrare definitivamente a Hollywood, ed è qui che nel 1951 viene ingaggiato da Wise per la composizione della colonna sonora di Ultimatum alla Terra.
Indipendente nelle scelte musicali, desideroso di godere di una piena libertà d’azione, Bernard vuole creare un suono insolito.
La convinzione di base è che la musica non debba contribuire a delineare il carattere dei personaggi, ma debba invece creare un‘atmosfera particolare. Per raggiungere il suddetto obiettivo, Herrmann scrive partiture per un’orchestra composta da un’ampia sezione di ottoni, arpe e percussioni (anziché dalla tradizionale sezione di archi e legni) ed arricchisce il tutto con una serie di strumenti elettronici tra i quali figura il Theremin.
Composto da due antenne (una verticale ed una orizzontale) capaci di produrre un particolare suono se sfiorate con le mani, questo strumento suggerisce l’idea di una presenza extraterrestre ed intensifica il senso di disagio ed inquietudine nello spettatore, col risultato di conferire all’ambientazione del film (la Terra) le fattezze di un mondo alieno.
A partire da questo momento, il Theremin diverrà un vero e proprio cliché dei film di fantascienza.
L’utilizzo di questa strumentazione assolutamente unica rende la colonna sonora parte integrante di ciò che oggi definiremmo effetti sonori.
Il titolo:
Interessante è ricordare brevemente la gestazione del titolo, ultimo accorgimento che precede la distribuzione del film.
Invitato a cena da Darryl Zanuck, il vicepresidente responsabile del marketing propone come possibile titolo The Day the World Stopped, con allusione al momento di “ stallo ” dell’intero pianeta dovuto alla sottrazione di energia elettrica operata da Gort su ordine di Klaatu.
Su indicazione di Blaustein, il titolo viene poi modificato in The Day the Earth Stood Still, ritenuto più incisivo rispetto al precedente.
L’anteprima:
Dopo una prima visione del film, Darryl Zanuck propone di procedere con la distribuzione immediata.
Il parere di Zanuck è però ancora una volta in contrasto con quello di Blaustein, che ritiene sia necessario proiettare il film in anteprima per testare le reazioni del pubblico.
Approfittando di una temporanea assenza di Zanuck, Julien assume il comando ed organizza una prima proiezione del film.
Il risultato è apparentemente deludente. Numerose scene relative alla mobilitazione dell’esercito (contro la minaccia aliena) suscitano le risate del pubblico.
Tuttavia, con il procedere della storia (e soprattutto, con l’apparizione di Gort) l’atmosfera cambia: l’ilarità si tramuta in silenzio, le risa lasciano spazio al terrore, allo stupore, al turbamento dinnanzi ad un evento di portata collettiva che non si riduce al puro e semplice intrattenimento, ma aspira a divenire spunto per una riflessione su temi tutt’altro che banali.
Il film:
Caratteristica principale di Ultimatum alla Terra è quella di essere un film realistico e credibile, credibilità e realismo ottenuti mediante tre scelte fondamentali:
- ambientare la storia in una qualsivoglia metropoli, mostrandone le strade, gli edifici, “ mischiando “ il visitatore ai cittadini locali;
- semplificare al massimo ogni artificio tecnico;
- utilizzare movimenti di macchina lineari, con propensione a riprendere il protagonista in ombra e di spalle (in modo tale da accentuare l’alone di mistero che lo circonda).
Il tutto potenziato dal bianco e nero.
Sfruttando la verosimiglianza della storia, Wise stimola l’interesse dello spettatore, esprimendo al contempo una personale concezione di ritmo. Esso non consiste nella velocità di un film, ma nel saper catturare fin dall’inizio l’attenzione del pubblico.
Grazie a questa geniale intuizione, Ultimatum alla Terra otterrà un successo inaspettato ed inizierà ad essere definito un classico della fantascienza.
_______________________________________________
[1] Intervista concessa a Harry Kreisler nel febbraio 1998 per il programma Conversations With History, prodotto dall’Instutute of International Studies dell’Università di Berkeley, California.
[2] Il racconto appare in Italia solo nel 1952, tra le pagine della rivista di fantascienza Scienza Fantastica.
Nei decenni successivi, la traduzione italiana del titolo (Uomo di carne ... uomo d’acciaio …) subirà dei mutamenti in: Klaatu. Prologo di un’invasione; Ultimatum alla terra; Addio al padrone.
[3] Conversations With History, cit.
[4] Conversations With History, cit.
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It Came from Outer Space
Posted : 13 years, 8 months ago on 5 March 2011 04:48 (A review of It Came from Outer Space)It Came from Outer Space (Destinazione Terra)
1953
USA
Regia: Jack Arnold.
Produzione: William Alland per la Universal International Pictures.
Sceneggiatura: Ray Bradbury.
Fotografia: Clifford Stine (bianco e nero).
Montaggio: Paul Weatherwax.
Scenografia: Robert F. Boyle, Bernard Herzbrun.
Effetti speciali: David S. Horsley, Bud Westmore.
Musica: Herman Stein.
Costumi: Rosemary Odell.
Cast: Richard Carlson (John Putnam), Barbara Rush (Ellen Fields), Charles Drake (Matt Warren), Joe Sawyer (Frank Daylon), Russell Johnson (George), Kathleen Hughes (Jane).
Durata: 81’.
La genesi:
“ Quando dall’Universal mi è stata assegnata la regia di Destinazione Terra, mi è stata data una grande opportunità, in primo luogo perché era una storia scritta da Ray Bradbury, che rispetto profondamente.
E poi perché il punto principale del racconto è il fatto che noi tutti siamo inclini a temere quello che è diverso da noi, sia che si tratti di un’idea, del colore della pelle o perfino del quartiere di una grande città contrapposto ad un altro.
Quando un qualsiasi cosa è diverso, lo si odia e lo si vuole eliminare. È questa la prima reazione che si ha.
Soltanto quando saremo abbastanza maturi da andare incontro a una cosa diversa da noi su un livello più alto, senza averne paura, solo allora saremo degni di incontrare qualsiasi cosa ci sia lì fuori nel cosmo, e io ritengo che lì debba esserci qualcuno. “ [1]
Secondo Ray Bradbury:
Prima pellicola fantascientifica dell’Universal, Destinazione Terra si presenta come il perfezionamento di It Came from Outer Space (Esso venne dallo spazio esterno), trattamento scritto da Bradbury nel 1952.
Intenzionati a cimentarsi nel neonato genere fantascientifico, ma privi di sceneggiatori in grado di soddisfare le loro esigenze, i dirigenti dell’Universal decidono di affidarsi alle competenze di uno tra i più celebri scrittori americani: Ray Bradbury.
Convocato presso gli uffici della piccola compagnia hollywoodiana, Bradbury si impegna nella stesura di un soggetto ampio circa una quarantina di pagine, senza che gli sia specificata alcuna tipologia di trama.
Unico vincolo: inserire all’interno del testo una creatura mostruosa che possa essere ricondotta alla campagna pubblicitaria del film.
Ma quale tipologia di storia sviluppare? Al fine di porre Bradbury in condizione di realizzare il trattamento più adatto, i dirigenti dell’Universal dispongono che lo scrittore sia messo in contatto con Jack Arnold, regista del film, e William Alland, produttore esecutivo.
L’incontro è tutt’altro che chiarificatore. I pareri sono talmente discordanti da indurre Bradbury a realizzare ben due soggetti differenti: uno redatto secondo le sue idee (creature aliene presenti, ma mai mostrate nel loro vero aspetto) ed uno steso rispettando le esigenze di Arnold ed Alland (elemento fantascientifico preponderante fin dall’inizio del film).
Quattro settimane più tardi, entrambe le versioni vengono esaminate dalla coppia regista/produttore, per poi essere sottoposte al vaglio dei dirigenti Universal.
Contrariamente alle aspettative, il soggetto realizzato “ da Bradbury per Bradbury “ risulta notevolmente più incisivo rispetto a quello scritto “ da Bradbury per Arnold ed Alland “.
Costituito da circa un’ottantina di pagine (contro le quaranta previste), il trattamento può dirsi quasi una sceneggiatura completa, e dopo alcuni ritocchi ad opera di Harry Essex [2] è pronto per essere utilizzato.
A riprese quasi ultimate (ed in linea con l’idea iniziale), la produzione costringe Arnold ad inserire alcune inquadrature di una creatura ciclopica, creata allo scopo di facilitare la promozione del film.
“ Non volevo farlo vedere “, ricorda Arnold, “ volevo soltanto usare il suo punto di vista .. Volevo mostrarne solo un flash, far vedere qualcosa di indefinibile nel pozzo della miniera quando Carlson lo incontra ..
Ma la casa di produzione, in tutti i film di fantascienza che abbiamo fatto, cercava sempre qualcosa di sensazionale da sfruttare alla fine … Voleva qualcosa per la pubblicità. Così mi imposero di mettere nel film quel mostro con un solo enorme occhio. “ [3]
Secondo William Alland:
Alla versione di Bradbury si contrappone quella del produttore esecutivo dell’Universal: William Alland.
Colpito dagli elevati incassi ottenuti dai primi film di fantascienza, Alland decide di stendere un breve soggetto riconducibile a questo neonato genere.
L’idea di base è quella di un astronave colma di alieni, accidentalmente caduta sulla terra a causa di un guasto. Per nulla ostili, gli alieni tentano di ripartire, ma prima di riuscirci dovranno confrontarsi con una civiltà (quella umana) non ancora pronta per entrare in contatto con loro.
Sottoposta a Bill Goetz [4], l’idea viene immediatamente approvata, ed il produttore viene autorizzato a servirsi di uno sceneggiatore Universal al fine di sviluppare un vero e proprio soggetto.
Intenzionato a valersi di uno sceneggiatore esterno, Alland rifiuta, e dopo numerose peripezie riesce ad individuare lo specialista più adatto alle sue esigenze: Ray Bradbury.
Dopo un breve colloquio, Bradbury si impegna nella stesura di un trattamento, che una volta finito viene esteso da Harry Essex alle dimensioni di una normale sceneggiatura.
Nessun colloquio preliminare tra Bradbury, Alland ed Arnold, nessuna doppia versione del soggetto e soprattutto nessuna traccia di It Came from Outer Space, racconto da cui si sostiene sia stato tratto il film.
A riprese già avviate, la produzione impone l’inserimento di alcune inquadrature di una creatura ciclopica fabbricata a scopo pubblicitario.
Gli stilemi:
Terzo film in 3-D [5] ad apparire sugli schermi, Destinazione Terra può essere considerato come la matrice di tutti quegli spunti poi ampliati dal regista nei suoi film successivi. Analizziamone alcuni.
I personaggi:
Intenzionato a non appesantire la simbologia della narrazione, Arnold si serve di figure semplici, lineari, quasi stereotipate, la cui funzione nella vita corrente è pressoché irrilevante.
Incapaci di inserirsi in una società ormai priva di valori, questi mezzi uomini (solitamente comuni borghesi) lottano incessantemente per la riconquista della loro perfetta condizione mentale, in perenne confronto con eventi insoliti, irrazionali ed imprevisti. Le ripercussioni psicologiche di questi eventi sono volutamente tralasciate, allo scopo di non distrarre l’attenzione del pubblico da altri due elementi fondamentali: la figura del mostro e la forza suggestiva della natura selvaggia.
Il mostro:
Per la gran parte del film, unico indizio della presenza del mostro (nel suo autentico aspetto) è una semplice, ma geniale visione in soggettiva, in linea con le esigenze del regista stesso.
Confinata nei meandri di splendidi paesaggi naturali, ove trova rifugio, la creatura appare solo per qualche istante [6] e non per volontà di Arnold. Intento del regista era infatti quello di nascondere il mostro alla vista dello spettatore, lasciando che fosse quest’ultimo ad immaginare il suo vero aspetto [7].
Questa scelta (oltre a denotare il rifiuto dei mostri classici) appare in linea con quella di un altro grande regista: Jacques Tourneur. Sia Arnold che Tourneur optano per un terrore relegato alla pura e semplice immaginazione, mai visivamente ostentato [8].
A differenza di Tourneur (assecondato dal produttore Val Lewton), Arnold dovrà rinunciare a non mostrare il mostro causa esigenze di produzione.
Un altro aspetto che traspare dalla pellicola è il profondo rispetto con cui il regista dipinge la diversità, tratto distintivo delle creature aliene. Con l’avanzare della storia, questo tratto diviene l’elemento indispensabile ai protagonisti per ritrovare la loro migliore essenza umana, elevando gli alieni a simbolo della parte più positiva ed evoluta dell’animo umano stesso.
L’uso della soggettiva:
L’utilizzo della soggettiva risponde a due funzioni principali:
- creare un senso di aspettativa continua;
- favorire l’identificazione (del pubblico) con le creature aliene.
Soffermiamoci per un istante sulla prima delle due funzioni citate.
Utilizzando la tipica alternanza soggettiva [del mostro]/ oggettiva [della vittima], Arnold suggerisce l’dea che il protagonista sia stato inconsapevolmente preso di mira da una creatura aliena …
Appostata chissà dove, essa attende il momento più adatto per ghermire la preda, ma non ci è dato sapere se e quando questo accadrà …
Creando un clima di minaccia incombente, ma mai prossima a concretizzarsi, il regista pone gli spettatori in uno stato di spasmodica attesa, accentuando notevolmente la suspense del film.
Gli esterni:
Esseri umani e creature aliene si muovono in splendidi paesaggi naturali dotati di enorme potenzialità suggestiva. Essa viene abilmente sfruttata dal regista per immergere la vicenda in un’atmosfera particolare, in modo tale che tanto gli attori quanto la storia ne siano rafforzati.
Secondo Arnold, la creazione di un atmosfera è la condizione necessaria per sospendere l’incredulità del pubblico, per indurlo ad accettare l’impossibile, il ridicolo, il bizzarro, ovvero tutti gli elementi costitutivi di un film di fantascienza.
Una geniale intuizione applicata anche in film successivi.
_______________________________________________
[1] Luigi Cozzi, Jack Arnold, William Alland e il grande cinema di fantascienza dell’Universal negli anni Cinquanta, Profondo Rosso, Roma, 2006, p. 43.
[2] Sceneggiatore Universal.
[3] Luigi Cozzi, Jack Arnold, William Alland e il grande cinema di fantascienza dell’Universal negli anni Cinquanta, op. cit. pp. 46-47.
[4] Produttore capo Universal.
[5] Sviluppato da Clifford Stine (in collaborazione con lo stesso J. Arnold), il sistema 3-D dell’Universal prevede l’utilizzo di due cineprese Mitchell posizionate l’una accanto all’altra, con una capovolta. La cinepresa capovolta viene azionata all’indietro, ma in modo tale da rimanere in sincronia con l’altra.
Prima di Destinazione Terra erano stati realizzati altri due film in 3-D: Bwana Devil (Bwana Devil, 1952) di Arch Oboler e House of Wax (La maschera di cera, 1953) di André De Toth.
[6] All’inizio del film (nell’atto di fuoriuscire dall’astronave) e alla fine (dopo il confronto verbale con Putnam).
[7] Anche grazie ad alcuni indizi forniti durante il corso del film: la soggettiva, la scia di polvere luccicante ecc ..
[8] In proposito Tourneur afferma: “ […] Secondo me - l’ho sempre detto e non è una novità, altri l’hanno detto prima di me - l’orrore si crea nella fantasia dello spettatore, bisogna suggerire le cose, e in tutti i miei film non si vedeva mai la causa che generava l’orrore. […] Rimane comunque un fatto curioso: quello che viene appena suggerito è molto più efficace di quello che viene davvero mostrato. Un grosso errore in molti film dell’orrore è far vedere il mostro. Non bisogna. “ (Francesco Ballo, Jacques Tourneur. La trilogia del fantastico, Falsopiano, Alessandria, 2007, pp. 38-39).
Tra i più lampanti esempi di questa concezione ricordiamo: Cat People (Il bacio della pantera, 1942) e The Leopard Man (L’uomo leopardo, 1943).
1953
USA
Regia: Jack Arnold.
Produzione: William Alland per la Universal International Pictures.
Sceneggiatura: Ray Bradbury.
Fotografia: Clifford Stine (bianco e nero).
Montaggio: Paul Weatherwax.
Scenografia: Robert F. Boyle, Bernard Herzbrun.
Effetti speciali: David S. Horsley, Bud Westmore.
Musica: Herman Stein.
Costumi: Rosemary Odell.
Cast: Richard Carlson (John Putnam), Barbara Rush (Ellen Fields), Charles Drake (Matt Warren), Joe Sawyer (Frank Daylon), Russell Johnson (George), Kathleen Hughes (Jane).
Durata: 81’.
La genesi:
“ Quando dall’Universal mi è stata assegnata la regia di Destinazione Terra, mi è stata data una grande opportunità, in primo luogo perché era una storia scritta da Ray Bradbury, che rispetto profondamente.
E poi perché il punto principale del racconto è il fatto che noi tutti siamo inclini a temere quello che è diverso da noi, sia che si tratti di un’idea, del colore della pelle o perfino del quartiere di una grande città contrapposto ad un altro.
Quando un qualsiasi cosa è diverso, lo si odia e lo si vuole eliminare. È questa la prima reazione che si ha.
Soltanto quando saremo abbastanza maturi da andare incontro a una cosa diversa da noi su un livello più alto, senza averne paura, solo allora saremo degni di incontrare qualsiasi cosa ci sia lì fuori nel cosmo, e io ritengo che lì debba esserci qualcuno. “ [1]
J. Arnold
Secondo Ray Bradbury:
Prima pellicola fantascientifica dell’Universal, Destinazione Terra si presenta come il perfezionamento di It Came from Outer Space (Esso venne dallo spazio esterno), trattamento scritto da Bradbury nel 1952.
Intenzionati a cimentarsi nel neonato genere fantascientifico, ma privi di sceneggiatori in grado di soddisfare le loro esigenze, i dirigenti dell’Universal decidono di affidarsi alle competenze di uno tra i più celebri scrittori americani: Ray Bradbury.
Convocato presso gli uffici della piccola compagnia hollywoodiana, Bradbury si impegna nella stesura di un soggetto ampio circa una quarantina di pagine, senza che gli sia specificata alcuna tipologia di trama.
Unico vincolo: inserire all’interno del testo una creatura mostruosa che possa essere ricondotta alla campagna pubblicitaria del film.
Ma quale tipologia di storia sviluppare? Al fine di porre Bradbury in condizione di realizzare il trattamento più adatto, i dirigenti dell’Universal dispongono che lo scrittore sia messo in contatto con Jack Arnold, regista del film, e William Alland, produttore esecutivo.
L’incontro è tutt’altro che chiarificatore. I pareri sono talmente discordanti da indurre Bradbury a realizzare ben due soggetti differenti: uno redatto secondo le sue idee (creature aliene presenti, ma mai mostrate nel loro vero aspetto) ed uno steso rispettando le esigenze di Arnold ed Alland (elemento fantascientifico preponderante fin dall’inizio del film).
Quattro settimane più tardi, entrambe le versioni vengono esaminate dalla coppia regista/produttore, per poi essere sottoposte al vaglio dei dirigenti Universal.
Contrariamente alle aspettative, il soggetto realizzato “ da Bradbury per Bradbury “ risulta notevolmente più incisivo rispetto a quello scritto “ da Bradbury per Arnold ed Alland “.
Costituito da circa un’ottantina di pagine (contro le quaranta previste), il trattamento può dirsi quasi una sceneggiatura completa, e dopo alcuni ritocchi ad opera di Harry Essex [2] è pronto per essere utilizzato.
A riprese quasi ultimate (ed in linea con l’idea iniziale), la produzione costringe Arnold ad inserire alcune inquadrature di una creatura ciclopica, creata allo scopo di facilitare la promozione del film.
“ Non volevo farlo vedere “, ricorda Arnold, “ volevo soltanto usare il suo punto di vista .. Volevo mostrarne solo un flash, far vedere qualcosa di indefinibile nel pozzo della miniera quando Carlson lo incontra ..
Ma la casa di produzione, in tutti i film di fantascienza che abbiamo fatto, cercava sempre qualcosa di sensazionale da sfruttare alla fine … Voleva qualcosa per la pubblicità. Così mi imposero di mettere nel film quel mostro con un solo enorme occhio. “ [3]
Secondo William Alland:
Alla versione di Bradbury si contrappone quella del produttore esecutivo dell’Universal: William Alland.
Colpito dagli elevati incassi ottenuti dai primi film di fantascienza, Alland decide di stendere un breve soggetto riconducibile a questo neonato genere.
L’idea di base è quella di un astronave colma di alieni, accidentalmente caduta sulla terra a causa di un guasto. Per nulla ostili, gli alieni tentano di ripartire, ma prima di riuscirci dovranno confrontarsi con una civiltà (quella umana) non ancora pronta per entrare in contatto con loro.
Sottoposta a Bill Goetz [4], l’idea viene immediatamente approvata, ed il produttore viene autorizzato a servirsi di uno sceneggiatore Universal al fine di sviluppare un vero e proprio soggetto.
Intenzionato a valersi di uno sceneggiatore esterno, Alland rifiuta, e dopo numerose peripezie riesce ad individuare lo specialista più adatto alle sue esigenze: Ray Bradbury.
Dopo un breve colloquio, Bradbury si impegna nella stesura di un trattamento, che una volta finito viene esteso da Harry Essex alle dimensioni di una normale sceneggiatura.
Nessun colloquio preliminare tra Bradbury, Alland ed Arnold, nessuna doppia versione del soggetto e soprattutto nessuna traccia di It Came from Outer Space, racconto da cui si sostiene sia stato tratto il film.
A riprese già avviate, la produzione impone l’inserimento di alcune inquadrature di una creatura ciclopica fabbricata a scopo pubblicitario.
Gli stilemi:
Terzo film in 3-D [5] ad apparire sugli schermi, Destinazione Terra può essere considerato come la matrice di tutti quegli spunti poi ampliati dal regista nei suoi film successivi. Analizziamone alcuni.
I personaggi:
Intenzionato a non appesantire la simbologia della narrazione, Arnold si serve di figure semplici, lineari, quasi stereotipate, la cui funzione nella vita corrente è pressoché irrilevante.
Incapaci di inserirsi in una società ormai priva di valori, questi mezzi uomini (solitamente comuni borghesi) lottano incessantemente per la riconquista della loro perfetta condizione mentale, in perenne confronto con eventi insoliti, irrazionali ed imprevisti. Le ripercussioni psicologiche di questi eventi sono volutamente tralasciate, allo scopo di non distrarre l’attenzione del pubblico da altri due elementi fondamentali: la figura del mostro e la forza suggestiva della natura selvaggia.
Il mostro:
Per la gran parte del film, unico indizio della presenza del mostro (nel suo autentico aspetto) è una semplice, ma geniale visione in soggettiva, in linea con le esigenze del regista stesso.
Confinata nei meandri di splendidi paesaggi naturali, ove trova rifugio, la creatura appare solo per qualche istante [6] e non per volontà di Arnold. Intento del regista era infatti quello di nascondere il mostro alla vista dello spettatore, lasciando che fosse quest’ultimo ad immaginare il suo vero aspetto [7].
Questa scelta (oltre a denotare il rifiuto dei mostri classici) appare in linea con quella di un altro grande regista: Jacques Tourneur. Sia Arnold che Tourneur optano per un terrore relegato alla pura e semplice immaginazione, mai visivamente ostentato [8].
A differenza di Tourneur (assecondato dal produttore Val Lewton), Arnold dovrà rinunciare a non mostrare il mostro causa esigenze di produzione.
Un altro aspetto che traspare dalla pellicola è il profondo rispetto con cui il regista dipinge la diversità, tratto distintivo delle creature aliene. Con l’avanzare della storia, questo tratto diviene l’elemento indispensabile ai protagonisti per ritrovare la loro migliore essenza umana, elevando gli alieni a simbolo della parte più positiva ed evoluta dell’animo umano stesso.
L’uso della soggettiva:
L’utilizzo della soggettiva risponde a due funzioni principali:
- creare un senso di aspettativa continua;
- favorire l’identificazione (del pubblico) con le creature aliene.
Soffermiamoci per un istante sulla prima delle due funzioni citate.
Utilizzando la tipica alternanza soggettiva [del mostro]/ oggettiva [della vittima], Arnold suggerisce l’dea che il protagonista sia stato inconsapevolmente preso di mira da una creatura aliena …
Appostata chissà dove, essa attende il momento più adatto per ghermire la preda, ma non ci è dato sapere se e quando questo accadrà …
Creando un clima di minaccia incombente, ma mai prossima a concretizzarsi, il regista pone gli spettatori in uno stato di spasmodica attesa, accentuando notevolmente la suspense del film.
Gli esterni:
Esseri umani e creature aliene si muovono in splendidi paesaggi naturali dotati di enorme potenzialità suggestiva. Essa viene abilmente sfruttata dal regista per immergere la vicenda in un’atmosfera particolare, in modo tale che tanto gli attori quanto la storia ne siano rafforzati.
Secondo Arnold, la creazione di un atmosfera è la condizione necessaria per sospendere l’incredulità del pubblico, per indurlo ad accettare l’impossibile, il ridicolo, il bizzarro, ovvero tutti gli elementi costitutivi di un film di fantascienza.
Una geniale intuizione applicata anche in film successivi.
_______________________________________________
[1] Luigi Cozzi, Jack Arnold, William Alland e il grande cinema di fantascienza dell’Universal negli anni Cinquanta, Profondo Rosso, Roma, 2006, p. 43.
[2] Sceneggiatore Universal.
[3] Luigi Cozzi, Jack Arnold, William Alland e il grande cinema di fantascienza dell’Universal negli anni Cinquanta, op. cit. pp. 46-47.
[4] Produttore capo Universal.
[5] Sviluppato da Clifford Stine (in collaborazione con lo stesso J. Arnold), il sistema 3-D dell’Universal prevede l’utilizzo di due cineprese Mitchell posizionate l’una accanto all’altra, con una capovolta. La cinepresa capovolta viene azionata all’indietro, ma in modo tale da rimanere in sincronia con l’altra.
Prima di Destinazione Terra erano stati realizzati altri due film in 3-D: Bwana Devil (Bwana Devil, 1952) di Arch Oboler e House of Wax (La maschera di cera, 1953) di André De Toth.
[6] All’inizio del film (nell’atto di fuoriuscire dall’astronave) e alla fine (dopo il confronto verbale con Putnam).
[7] Anche grazie ad alcuni indizi forniti durante il corso del film: la soggettiva, la scia di polvere luccicante ecc ..
[8] In proposito Tourneur afferma: “ […] Secondo me - l’ho sempre detto e non è una novità, altri l’hanno detto prima di me - l’orrore si crea nella fantasia dello spettatore, bisogna suggerire le cose, e in tutti i miei film non si vedeva mai la causa che generava l’orrore. […] Rimane comunque un fatto curioso: quello che viene appena suggerito è molto più efficace di quello che viene davvero mostrato. Un grosso errore in molti film dell’orrore è far vedere il mostro. Non bisogna. “ (Francesco Ballo, Jacques Tourneur. La trilogia del fantastico, Falsopiano, Alessandria, 2007, pp. 38-39).
Tra i più lampanti esempi di questa concezione ricordiamo: Cat People (Il bacio della pantera, 1942) e The Leopard Man (L’uomo leopardo, 1943).
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Starman
Posted : 13 years, 8 months ago on 5 March 2011 03:50 (A review of Starman)Starman (Starman)
1984
USA
Regia: John Carpenter.
Produzione: Columbia Productions, Delphi Productions II.
Sceneggiatura: Bruce A. Evans, Raynold Gideon (Dean Riesner non accreditato).
Fotografia: Donald M. Morgan.
Montaggio: Marion Rothman.
Scenografia: Daniel Lomino.
Effetti speciali: Bill Lee, Kevin Quibell, Dick Wood, David Simmons.
Effetti speciali visivi: Industrial Light & Magic.
Effetti speciali di make-up: Dick Smith, Stan Winston, Rick Baker.
Coordinamento effetti speciali: Roy Arbogast.
Supervisione effetti speciali: Bruce Nicholson.
Musica: Jack Nitzsche.
Costumi: Andy Hylton, Robin Michel Bush.
Make-up: Peter Altobelli.
Assistente alla regia: Larry Franco, Jeffrey Chernov.
Regia seconda unità: Joe Alves.
Produttore: Larry Franco.
Produttore esecutivo: Michael Douglas.
Produttore associato: Bruce A. Evans, Raynold Gideon.
Cast: Jeff Bridges (Starman), Karen Allen (Jenny Hayden), Charles Martin Smith (Mark Sherman), Richard Jaeckel (George Fox), Robert Phalen (maggiore Bell), Tony Edwards (sergente Lemon), John Walter Davis (Brad Heinmuller), Ted White (Deer Hunter), Dirk Blocker (primo poliziotto), M.C. Gainey (secondo poliziotto), Sean Faro (Hot Rodder), Buck Flower (cuoco), Russ Benning (scienziato), Ralph Cosham (ufficiale di marina), David Wells (assistente di Fox), Anthony Grumbach (ufficiale Nasa), Jim Deeth (pilota), Alex Daniels (benzinaio), Carol Rosenthal (cliente del benzinaio).
Distribuzione: Columbia Pictures.
Durata: 115’.
La genesi:
L’eccezione:
Realizzato su commissione per la Columbia dopo uno stravolgimento del soggetto originale [1], Starman rappresenta una vera e propria eccezione nella filmografia di Carpenter.
Il set:
A condizionare la scelta dei set è la vicenda stessa, insolitamente strutturata come un viaggio.
Suddiviso tra Nevada, Arizona e Tennessee, l’itinerario prevede spazi ampi ed aperti che nulla hanno a che vedere con i rarefatti set tipici della prima produzione carpenteriana.
Gli scenari notturni e claustrofobici vengono temporaneamente abbandonati, così come la condizione di isolamento (dell’individuo e dell’anima) ad essi associata.
Il tema:
“ I film sono emozioni, un pubblico dovrebbe piangere, ridere o spaventarsi. Penso che il pubblico dovrebbe proiettarsi nel film, in un personaggio, in una situazione e reagire. […]
Non credo che il cinema sia un mezzo per comunicare messaggi. […] Il cinema è un mezzo per trasmettere sensazioni. “ [2]
In perfetto accordo con queste parole, Carpenter realizza una storia intima, umana, che mira dritto al cuore dello spettatore.
Non una semplice commedia romantica, ma una vera e propria indagine sull’essenza stessa dell’amore.
Amore che, con imparagonabile potenza, fa la sua prima [3] incursione nell’universo carpenteriano, stemperando la visone da incubo solitamente associata agli organismi alieni ideati dal regista.
Interessante è il motivo che spinse Carpenter ad accettare la realizzazione del film: la straordinaria somiglianza del soggetto con It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) di Frank Capra.
Motivazione curiosa, ma non insolita, in quanto riconducibile ad una costante della filmografia carpenteriana: il citazionismo.
La regola:
Il citazionismo:
Attratto dai cineasti americani classici [4], appassionato di science fiction anni ’50, Carpenter non esita a disseminare il film di sottili riferimenti a grandi capolavori del passato.
Nella scena della camera d’albergo, la televisione trasmette un breve spezzone [5] di From Here to Eternity (Da qui all’eternità, 1953) di Fred Zinnemann. A pochi centimetri di distanza, Starman osserva lo scorrere delle immagini, scoprendo un altro poetico tassello dell’universo (amoroso) umano.
Durante il viaggio, la Monument Valley troneggia per qualche istante alle spalle dei protagonisti, in un sottile omaggio al cinema di Ford, mentre il luccicante regno del gioco d’azzardo (Las Vegas) rievoca le nostalgiche atmosfere del nuovo cinema americano anni Settanta.
Bizzarra coincidenza, il cognome del regista (Carpenter) è identico al falso nome scelto da Klaatu (protagonista di The Day the Earth Stood Still ) per mascherare la sua vera identità.
Al di là del fato, esiste un effettivo punto di comunanza tra The Day the Earth Stood Still e Starman: entrambi gli esseri alieni (Klaatu, Starman) faticano a comprendere l’irrazionalità del comportamento umano.
Tutto ciò non deve però trarci in inganno. Dalla citazione della sequenza iniziale [6] alla visione in soggettiva, Starman fa costantemente riferimento ad un vero e proprio gioiello della fantascienza anni ’50: It Came from Outer Space, di Jack Arnold.
“ Nel 1953, in un teatro di Rochester, New York, mia madre mi portò a vedere Destinazione Terra in 3-D.
La prima inquadratura del film che io ricordo è un campo lungo di un panorama desertico. La macchina da presa sta panoramicando orizzontalmente su una meteora che dal cielo precipita verso la Terra. La seconda inquadratura è della meteora che sta venendo dritta contro la camera ed esplode.
Nel 1953 quella meteora uscì fuori dallo schermo ed esplose sulla mia faccia. Abbandonai mia madre e schizzai fuori nel corridoio per la paura. Ma quella volta … io mi innamorai del cinema. “ [7]
Diverso è l’atteggiamento del regista verso The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951), prima ed unica incursione di Howard Hawks nella fantascienza.
All’ostilità della cosa hawksiana Carpenter contrappone un essere puro, autentico, una sorta di nuovo messia alla ricerca di una forma di comunicazione, forma di comunicazione che troverà appunto nell’amore …
La musica:
... Ma l’amore non è sufficiente a rendere l’ordine terrestre accostabile
a quello immaginato ...
.. ed ecco allora un profondo senso di insoddisfazione pervadere l’intera pellicola .. ed essere prontamente sottolineato dal brano I Can’t Get No Satisfaction, sulle cui note scorrono le immagini iniziali del film (tragitto del Voyager 2 prima e della navicella di Starman poi).
Dal rock’n’roll dei Rolling Stones alla delicata melodia finale, la musica assume ancora una volta [8] un ruolo fondamentale, divenendo amplificatrice di quelle emozioni da Carpenter stesso citate.
Trasportati in un mondo insolitamente dolce, non ci resta che sognare [9] .. e chissà che i nostri non diventino realtà …
_______________________________________________
[1] Scritto da Bruce A. Evans e Raynold Gideon, il soggetto originale prevedeva un totale sterminio del governo ad opera del protagonista.
Insoddisfatto del lavoro svolto dagli autori, Carpenter opta per un’umanizzazione del soggetto (portata a termine da Dean Riesner, abile sceneggiatore hollywoodiano più volte collaboratore di Don Siegel e Clint Eastwood).
[2] Fabrizio Liberti, John Carpenter, Il Castoro, Milano, 2003, p. 5.
[3] Ed unica (con la parziale eccezione di Memoirs of an Invisible Man, 1992).
[4] A. Hitchcock, H. Hawks, J. Ford, O. Welles ecc .. cui si dovrebbero aggiungere alcuni cineasti europei come L. Buñuel e R. Polanski.
[5] Il leggendario bacio tra Deborah Kerr e Burt Lancaster.
[6] L’astronave aliena piomba verso la macchina da presa come una meteora impazzita.
[7] Fabrizio Liberti, John Carpenter, op. cit., p. 5.
[8] Dopo Dark Star (1975), Elvis the Movie (1979) e Christine (1983).
[9] All I Have To Do Is Dream (The Everly Brothers,1958) il brano che accompagna la proiezione del filmino girato prima della morte di Scott.
1984
USA
Regia: John Carpenter.
Produzione: Columbia Productions, Delphi Productions II.
Sceneggiatura: Bruce A. Evans, Raynold Gideon (Dean Riesner non accreditato).
Fotografia: Donald M. Morgan.
Montaggio: Marion Rothman.
Scenografia: Daniel Lomino.
Effetti speciali: Bill Lee, Kevin Quibell, Dick Wood, David Simmons.
Effetti speciali visivi: Industrial Light & Magic.
Effetti speciali di make-up: Dick Smith, Stan Winston, Rick Baker.
Coordinamento effetti speciali: Roy Arbogast.
Supervisione effetti speciali: Bruce Nicholson.
Musica: Jack Nitzsche.
Costumi: Andy Hylton, Robin Michel Bush.
Make-up: Peter Altobelli.
Assistente alla regia: Larry Franco, Jeffrey Chernov.
Regia seconda unità: Joe Alves.
Produttore: Larry Franco.
Produttore esecutivo: Michael Douglas.
Produttore associato: Bruce A. Evans, Raynold Gideon.
Cast: Jeff Bridges (Starman), Karen Allen (Jenny Hayden), Charles Martin Smith (Mark Sherman), Richard Jaeckel (George Fox), Robert Phalen (maggiore Bell), Tony Edwards (sergente Lemon), John Walter Davis (Brad Heinmuller), Ted White (Deer Hunter), Dirk Blocker (primo poliziotto), M.C. Gainey (secondo poliziotto), Sean Faro (Hot Rodder), Buck Flower (cuoco), Russ Benning (scienziato), Ralph Cosham (ufficiale di marina), David Wells (assistente di Fox), Anthony Grumbach (ufficiale Nasa), Jim Deeth (pilota), Alex Daniels (benzinaio), Carol Rosenthal (cliente del benzinaio).
Distribuzione: Columbia Pictures.
Durata: 115’.
La genesi:
L’eccezione:
Realizzato su commissione per la Columbia dopo uno stravolgimento del soggetto originale [1], Starman rappresenta una vera e propria eccezione nella filmografia di Carpenter.
Il set:
A condizionare la scelta dei set è la vicenda stessa, insolitamente strutturata come un viaggio.
Suddiviso tra Nevada, Arizona e Tennessee, l’itinerario prevede spazi ampi ed aperti che nulla hanno a che vedere con i rarefatti set tipici della prima produzione carpenteriana.
Gli scenari notturni e claustrofobici vengono temporaneamente abbandonati, così come la condizione di isolamento (dell’individuo e dell’anima) ad essi associata.
Il tema:
“ I film sono emozioni, un pubblico dovrebbe piangere, ridere o spaventarsi. Penso che il pubblico dovrebbe proiettarsi nel film, in un personaggio, in una situazione e reagire. […]
Non credo che il cinema sia un mezzo per comunicare messaggi. […] Il cinema è un mezzo per trasmettere sensazioni. “ [2]
J. Carpenter
In perfetto accordo con queste parole, Carpenter realizza una storia intima, umana, che mira dritto al cuore dello spettatore.
Non una semplice commedia romantica, ma una vera e propria indagine sull’essenza stessa dell’amore.
Amore che, con imparagonabile potenza, fa la sua prima [3] incursione nell’universo carpenteriano, stemperando la visone da incubo solitamente associata agli organismi alieni ideati dal regista.
Interessante è il motivo che spinse Carpenter ad accettare la realizzazione del film: la straordinaria somiglianza del soggetto con It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) di Frank Capra.
Motivazione curiosa, ma non insolita, in quanto riconducibile ad una costante della filmografia carpenteriana: il citazionismo.
La regola:
Il citazionismo:
Attratto dai cineasti americani classici [4], appassionato di science fiction anni ’50, Carpenter non esita a disseminare il film di sottili riferimenti a grandi capolavori del passato.
Nella scena della camera d’albergo, la televisione trasmette un breve spezzone [5] di From Here to Eternity (Da qui all’eternità, 1953) di Fred Zinnemann. A pochi centimetri di distanza, Starman osserva lo scorrere delle immagini, scoprendo un altro poetico tassello dell’universo (amoroso) umano.
Durante il viaggio, la Monument Valley troneggia per qualche istante alle spalle dei protagonisti, in un sottile omaggio al cinema di Ford, mentre il luccicante regno del gioco d’azzardo (Las Vegas) rievoca le nostalgiche atmosfere del nuovo cinema americano anni Settanta.
Bizzarra coincidenza, il cognome del regista (Carpenter) è identico al falso nome scelto da Klaatu (protagonista di The Day the Earth Stood Still ) per mascherare la sua vera identità.
Al di là del fato, esiste un effettivo punto di comunanza tra The Day the Earth Stood Still e Starman: entrambi gli esseri alieni (Klaatu, Starman) faticano a comprendere l’irrazionalità del comportamento umano.
Tutto ciò non deve però trarci in inganno. Dalla citazione della sequenza iniziale [6] alla visione in soggettiva, Starman fa costantemente riferimento ad un vero e proprio gioiello della fantascienza anni ’50: It Came from Outer Space, di Jack Arnold.
“ Nel 1953, in un teatro di Rochester, New York, mia madre mi portò a vedere Destinazione Terra in 3-D.
La prima inquadratura del film che io ricordo è un campo lungo di un panorama desertico. La macchina da presa sta panoramicando orizzontalmente su una meteora che dal cielo precipita verso la Terra. La seconda inquadratura è della meteora che sta venendo dritta contro la camera ed esplode.
Nel 1953 quella meteora uscì fuori dallo schermo ed esplose sulla mia faccia. Abbandonai mia madre e schizzai fuori nel corridoio per la paura. Ma quella volta … io mi innamorai del cinema. “ [7]
J. Carpenter
Diverso è l’atteggiamento del regista verso The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951), prima ed unica incursione di Howard Hawks nella fantascienza.
All’ostilità della cosa hawksiana Carpenter contrappone un essere puro, autentico, una sorta di nuovo messia alla ricerca di una forma di comunicazione, forma di comunicazione che troverà appunto nell’amore …
La musica:
... Ma l’amore non è sufficiente a rendere l’ordine terrestre accostabile
a quello immaginato ...
.. ed ecco allora un profondo senso di insoddisfazione pervadere l’intera pellicola .. ed essere prontamente sottolineato dal brano I Can’t Get No Satisfaction, sulle cui note scorrono le immagini iniziali del film (tragitto del Voyager 2 prima e della navicella di Starman poi).
Dal rock’n’roll dei Rolling Stones alla delicata melodia finale, la musica assume ancora una volta [8] un ruolo fondamentale, divenendo amplificatrice di quelle emozioni da Carpenter stesso citate.
Trasportati in un mondo insolitamente dolce, non ci resta che sognare [9] .. e chissà che i nostri non diventino realtà …
_______________________________________________
[1] Scritto da Bruce A. Evans e Raynold Gideon, il soggetto originale prevedeva un totale sterminio del governo ad opera del protagonista.
Insoddisfatto del lavoro svolto dagli autori, Carpenter opta per un’umanizzazione del soggetto (portata a termine da Dean Riesner, abile sceneggiatore hollywoodiano più volte collaboratore di Don Siegel e Clint Eastwood).
[2] Fabrizio Liberti, John Carpenter, Il Castoro, Milano, 2003, p. 5.
[3] Ed unica (con la parziale eccezione di Memoirs of an Invisible Man, 1992).
[4] A. Hitchcock, H. Hawks, J. Ford, O. Welles ecc .. cui si dovrebbero aggiungere alcuni cineasti europei come L. Buñuel e R. Polanski.
[5] Il leggendario bacio tra Deborah Kerr e Burt Lancaster.
[6] L’astronave aliena piomba verso la macchina da presa come una meteora impazzita.
[7] Fabrizio Liberti, John Carpenter, op. cit., p. 5.
[8] Dopo Dark Star (1975), Elvis the Movie (1979) e Christine (1983).
[9] All I Have To Do Is Dream (The Everly Brothers,1958) il brano che accompagna la proiezione del filmino girato prima della morte di Scott.
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Blind Husbands
Posted : 13 years, 8 months ago on 4 March 2011 03:22 (A review of Blind Husbands)Blind Husbands (Mariti ciechi) [1]:
1919
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Carl Laemmle per la Universal.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim dal suo dramma The Pinnacle.
Fotografia: Ben F. Reynolds (bianco e nero).
Montaggio: Frank Lawrence.
Scenografia: Erich Von Stroheim.
Cast: Sam DeGrasse (Dottor Armstrong), Francellia Billington (signora Armstrong), Erich Von Stroheim (tenente Erich Von Steuben), Gibson Gowland (Sepp), Fay Holderness (la cameriera), Valerie Germonprez (sposina in luna di miele), Jack Perrin (sposino in luna di miele), Richard Cummings (medico del villaggio).
Inoltre compaiono: Ruby Kendrick, Louis Fitzroy, William Duvalle, Jack Mathes, Percy Callengher.
Durata: 8 rulli [2].
Pervenutoci intatto (così come Stroheim lo voleva), Blind Husbands è l’unico film ad essere sfuggito alle mutilazioni imposte dalla potente macchina hollywoodiana. Compatto e coerente, ci permette di contemplare a pieno la straordinaria grandezza di Stroheim, qui per la prima volta dietro alla macchina da presa.
Dalla pellicola si evince come il cinema di Stroheim non sia un cinema di montaggio, bensì un cinema di montaggio interno.
Portato a concepire la scena come unità singola, anziché nella sua interdipendenza con le altre scene, Stroheim gioca costantemente sulla profondità di campo [3], dimostrando (al contempo) una straordinaria sicurezza nella costruzione dei piani.
La tendenza a disporre i soggetti (o gli elementi) in campo in modo tale che degradino verso la profondità è sicuramente riconducibile a David W. Griffith, ed in particolare al “ meccanismo “ della doppia azione, da egli stesso ideato [4].
Le affinità con il Maestro non finiscono qui. Blind Husbands è infatti caratterizzato da una griffithiana fissità della m.d.p, fissità che talvolta lascia spazio a ponderati movimenti di macchina. Si vedano, per esempio, le due panoramiche verticali che accompagnano il primo incontro “ visivo “ tra Sepp e Von Steuben (simulando le loro reciproche soggettive), l’angosciante carrello che stringe sul volto di Steuben durante il sogno della protagonista, o “ l’arcaico “ camera-car finale, che equipara la ritrovata serenità degli Armstrong al fresco amore tra i giovani sposini.
La m.d.p riprende i soggetti e gli elementi in campo parallelamente al terreno, ma non esita a regalarci tagli obliqui dall’alto e dal basso, principalmente finalizzati ad assecondare l’avventurarsi dei personaggi lungo le pendici del Monte Cristallo. Nei tagli obliqui dal basso i soggetti finiscono per stagliarsi contro le rocce o il cielo, mentre nei tagli obliqui dall’alto è la terra a chiudere la profondità di campo [5].
Da sottolineare poi il frequente utilizzo dei Primi Piani [6], che si lega abilmente a ciò che potremmo definire una “ pulsione al fuoricampo “.
Fin dal loro primo incontro, la Signora Armstrong e il tenente Von Steuben sembrano intenzionati a cercare un’intesa al di là dello spazio in cui la diegesi li costringe, un’intesa destinata a spezzarsi non appena il dottor Armstrong (animato dal sospetto e dalla gelosia) rinuncia ad adagiarsi nello spazio di un’inquadratura conclusa per tentare di sconfiggere il suo (presunto) rivale.
Questo fuoricampo del desiderio si traduce in un gioco di gesti e sguardi, gioco magistralmente condotto da Steuben/Stroheim. Avvolto in un’aderente divisa [7], assolutamente perfetta nella sua totalità, Stroheim sfoggia una recitazione contenuta, semplice e diretta, consolidando il mito dell’ “ uomo che si ama odiare “.
Non solo. Intenzionato a non farsi dominare dall’imperante dittatura dei divi, Stroheim sceglie attori dalla popolarità modesta, istruendoli ad una recitazione di tipo naturalistico. Ne risultano dei personaggi efficaci, fortemente caratterizzati, mai banali. Si veda, per esempio, la figura di Sepp. Sorta di guardiano dell’altrui desiderio, Sepp poggia il suo placido (ma evidente) disprezzo per Steuben su due componenti essenziali: la pipa, che lo connota come uomo silenzioso e riflessivo, e il cane, sorta di alterego pronto ad intervenire ogniqualvolta le pulsioni rischiano di debordare in follie.
Pur non trattandosi di un cinema di montaggio, è possibile riscontrare la presenza di numerosi attacchi sull’asse ed il rispetto dei principali tipi di raccordo [8]. Da segnalare poi il ricorso al montaggio alternato [9], altro elemento tipicamente griffithiano.
Si noti inoltre la singolare presenza di un flashback, palese ellissi temporale opportunamente “ segnalata “ tramite punteggiatura [10].
Le inquadrature sono nel complesso bilanciate e sfruttano spesso l’illuminazione naturale, anche se non lesinano quella artificiale [11].
A livello scenografico traspare quella predilezione per i paesaggi naturali che raggiungerà il culmine in Greed (Rapacità, 1923) [12].
Utilizzando la macchina da presa con consapevolezza e discrezione, Stroheim crea un opera cinica, diretta, dalla semplicità raffinata, ancor oggi considerabile come il capostipite di un nuovo metodo naturalistico di regia cinematografica.
_______________________________________________
[1] Conosciuto anche con il titolo di La legge della montagna.
[2] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 88).
93 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Dcult (Ermitage).
[3] E dunque sul “ tutto a fuoco “.
[4] La doppia azione prevede lo svolgimento di due azioni simultanee all’interno del quadro. La particolarità di questo meccanismo è che ciascuna azione viene dislocata ad una differente profondità di campo (la prima azione si svolge in prossimità della m.d.p, mentre la seconda si svolge in Campo Lungo o Lunghissimo).
Una memorabile applicazione del meccanismo della doppia azione è riscontrabile in The Massacre (The Massacre, 1912).
[5] La scelta di lasciare il suolo a chiudere la profondità di campo è (probabilmente) stata dettata anche dalla conoscenza dello stile di David W. Griffith, che soleva angolare la m.d.p in modo tale da lasciare (solo ed esclusivamente) il terreno a chiudere la profondità di campo.
[6] Altro elemento tipico dello stile di David W. Griffith.
[7] La divisa rivestirà sempre un ruolo fondamentale nella filmografia di Stroheim, sia come catalizzatore di tendenze feticistiche, sia come simbolo dell’unità fittizia di un io lacerato.
[8] Raccordo di posizione, raccordo di direzione, raccordo di direzione di sguardi (la cui applicabilità implica il rispetto della regola dei 180°), raccordo di sguardo, raccordo sul movimento.
[9] Si veda, per esempio, l’alternarsi della scalata di Steuben/Armstrong (ed il successivo confronto finale) con ciò che avviene nel rifugio, rifugio da cui partirà la squadra di soccorso che farà da trait d’union fra le due vicende.
[10] Si tratta del flashback di Sepp, che dolorosamente ricorda il momento in cui Armstrong gli salvò la vita.
L’introduzione del flashback è così strutturata: Primo Piano Allargato di Sepp, dissolvenza in nero, apertura dal nero sul Monte Cristallo (in Campo Lunghissimo), dissolvenza incrociata su Armstrong e Sepp (in Campo Lungo), didascalia, di nuovo Armstrong e Sepp (ora in Campo Medio Lungo), dissolvenza incrociata che ci riporta al Primo Piano Allargato di Sepp.
[11] Con illuminazione artificiale intendo sia la luce prodotta da fonti non naturali presenti in scena (lampade, candele, ecc …), sia la luce prodotta da fonti artificiali “ aggiuntive “ non presenti in scena (luci di studio).
[12] Mi riferisco soprattutto alle meravigliose riprese girate nella Valle della Morte.
1919
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Carl Laemmle per la Universal.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim dal suo dramma The Pinnacle.
Fotografia: Ben F. Reynolds (bianco e nero).
Montaggio: Frank Lawrence.
Scenografia: Erich Von Stroheim.
Cast: Sam DeGrasse (Dottor Armstrong), Francellia Billington (signora Armstrong), Erich Von Stroheim (tenente Erich Von Steuben), Gibson Gowland (Sepp), Fay Holderness (la cameriera), Valerie Germonprez (sposina in luna di miele), Jack Perrin (sposino in luna di miele), Richard Cummings (medico del villaggio).
Inoltre compaiono: Ruby Kendrick, Louis Fitzroy, William Duvalle, Jack Mathes, Percy Callengher.
Durata: 8 rulli [2].
Pervenutoci intatto (così come Stroheim lo voleva), Blind Husbands è l’unico film ad essere sfuggito alle mutilazioni imposte dalla potente macchina hollywoodiana. Compatto e coerente, ci permette di contemplare a pieno la straordinaria grandezza di Stroheim, qui per la prima volta dietro alla macchina da presa.
Dalla pellicola si evince come il cinema di Stroheim non sia un cinema di montaggio, bensì un cinema di montaggio interno.
Portato a concepire la scena come unità singola, anziché nella sua interdipendenza con le altre scene, Stroheim gioca costantemente sulla profondità di campo [3], dimostrando (al contempo) una straordinaria sicurezza nella costruzione dei piani.
La tendenza a disporre i soggetti (o gli elementi) in campo in modo tale che degradino verso la profondità è sicuramente riconducibile a David W. Griffith, ed in particolare al “ meccanismo “ della doppia azione, da egli stesso ideato [4].
Le affinità con il Maestro non finiscono qui. Blind Husbands è infatti caratterizzato da una griffithiana fissità della m.d.p, fissità che talvolta lascia spazio a ponderati movimenti di macchina. Si vedano, per esempio, le due panoramiche verticali che accompagnano il primo incontro “ visivo “ tra Sepp e Von Steuben (simulando le loro reciproche soggettive), l’angosciante carrello che stringe sul volto di Steuben durante il sogno della protagonista, o “ l’arcaico “ camera-car finale, che equipara la ritrovata serenità degli Armstrong al fresco amore tra i giovani sposini.
La m.d.p riprende i soggetti e gli elementi in campo parallelamente al terreno, ma non esita a regalarci tagli obliqui dall’alto e dal basso, principalmente finalizzati ad assecondare l’avventurarsi dei personaggi lungo le pendici del Monte Cristallo. Nei tagli obliqui dal basso i soggetti finiscono per stagliarsi contro le rocce o il cielo, mentre nei tagli obliqui dall’alto è la terra a chiudere la profondità di campo [5].
Da sottolineare poi il frequente utilizzo dei Primi Piani [6], che si lega abilmente a ciò che potremmo definire una “ pulsione al fuoricampo “.
Fin dal loro primo incontro, la Signora Armstrong e il tenente Von Steuben sembrano intenzionati a cercare un’intesa al di là dello spazio in cui la diegesi li costringe, un’intesa destinata a spezzarsi non appena il dottor Armstrong (animato dal sospetto e dalla gelosia) rinuncia ad adagiarsi nello spazio di un’inquadratura conclusa per tentare di sconfiggere il suo (presunto) rivale.
Questo fuoricampo del desiderio si traduce in un gioco di gesti e sguardi, gioco magistralmente condotto da Steuben/Stroheim. Avvolto in un’aderente divisa [7], assolutamente perfetta nella sua totalità, Stroheim sfoggia una recitazione contenuta, semplice e diretta, consolidando il mito dell’ “ uomo che si ama odiare “.
Non solo. Intenzionato a non farsi dominare dall’imperante dittatura dei divi, Stroheim sceglie attori dalla popolarità modesta, istruendoli ad una recitazione di tipo naturalistico. Ne risultano dei personaggi efficaci, fortemente caratterizzati, mai banali. Si veda, per esempio, la figura di Sepp. Sorta di guardiano dell’altrui desiderio, Sepp poggia il suo placido (ma evidente) disprezzo per Steuben su due componenti essenziali: la pipa, che lo connota come uomo silenzioso e riflessivo, e il cane, sorta di alterego pronto ad intervenire ogniqualvolta le pulsioni rischiano di debordare in follie.
Pur non trattandosi di un cinema di montaggio, è possibile riscontrare la presenza di numerosi attacchi sull’asse ed il rispetto dei principali tipi di raccordo [8]. Da segnalare poi il ricorso al montaggio alternato [9], altro elemento tipicamente griffithiano.
Si noti inoltre la singolare presenza di un flashback, palese ellissi temporale opportunamente “ segnalata “ tramite punteggiatura [10].
Le inquadrature sono nel complesso bilanciate e sfruttano spesso l’illuminazione naturale, anche se non lesinano quella artificiale [11].
A livello scenografico traspare quella predilezione per i paesaggi naturali che raggiungerà il culmine in Greed (Rapacità, 1923) [12].
Utilizzando la macchina da presa con consapevolezza e discrezione, Stroheim crea un opera cinica, diretta, dalla semplicità raffinata, ancor oggi considerabile come il capostipite di un nuovo metodo naturalistico di regia cinematografica.
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[1] Conosciuto anche con il titolo di La legge della montagna.
[2] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 88).
93 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Dcult (Ermitage).
[3] E dunque sul “ tutto a fuoco “.
[4] La doppia azione prevede lo svolgimento di due azioni simultanee all’interno del quadro. La particolarità di questo meccanismo è che ciascuna azione viene dislocata ad una differente profondità di campo (la prima azione si svolge in prossimità della m.d.p, mentre la seconda si svolge in Campo Lungo o Lunghissimo).
Una memorabile applicazione del meccanismo della doppia azione è riscontrabile in The Massacre (The Massacre, 1912).
[5] La scelta di lasciare il suolo a chiudere la profondità di campo è (probabilmente) stata dettata anche dalla conoscenza dello stile di David W. Griffith, che soleva angolare la m.d.p in modo tale da lasciare (solo ed esclusivamente) il terreno a chiudere la profondità di campo.
[6] Altro elemento tipico dello stile di David W. Griffith.
[7] La divisa rivestirà sempre un ruolo fondamentale nella filmografia di Stroheim, sia come catalizzatore di tendenze feticistiche, sia come simbolo dell’unità fittizia di un io lacerato.
[8] Raccordo di posizione, raccordo di direzione, raccordo di direzione di sguardi (la cui applicabilità implica il rispetto della regola dei 180°), raccordo di sguardo, raccordo sul movimento.
[9] Si veda, per esempio, l’alternarsi della scalata di Steuben/Armstrong (ed il successivo confronto finale) con ciò che avviene nel rifugio, rifugio da cui partirà la squadra di soccorso che farà da trait d’union fra le due vicende.
[10] Si tratta del flashback di Sepp, che dolorosamente ricorda il momento in cui Armstrong gli salvò la vita.
L’introduzione del flashback è così strutturata: Primo Piano Allargato di Sepp, dissolvenza in nero, apertura dal nero sul Monte Cristallo (in Campo Lunghissimo), dissolvenza incrociata su Armstrong e Sepp (in Campo Lungo), didascalia, di nuovo Armstrong e Sepp (ora in Campo Medio Lungo), dissolvenza incrociata che ci riporta al Primo Piano Allargato di Sepp.
[11] Con illuminazione artificiale intendo sia la luce prodotta da fonti non naturali presenti in scena (lampade, candele, ecc …), sia la luce prodotta da fonti artificiali “ aggiuntive “ non presenti in scena (luci di studio).
[12] Mi riferisco soprattutto alle meravigliose riprese girate nella Valle della Morte.
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Foolish Wives
Posted : 13 years, 8 months ago on 4 March 2011 02:00 (A review of Foolish Wives (1922))Foolish Wives (Femmine folli):
1921
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Carl Laemmle per la Universal.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim.
Fotografia: Ben F. Reynolds, William H. Daniels (bianco e nero).
Montaggio: Erich Von Stroheim, Arthur D. Ripley.
Scenografia: Erich Von Stroheim, Richard Day.
Cast: Maude George (principessa Olga Petchnikoff), Mae Busch (principessa Vera Petchnikoff), Erich Von Stroheim (conte Karamzin), Rudolph Christians (Andrew J. Hughes), Miss Dupont (sua moglie), Dale Fuller (Maruschka, la domestica), Cesare Gravina (Ventucci, il falsario), Malvine Polo (sua figlia).
Inoltre compaiono: Al Edmundsen, C. J. Allen.
Durata: 21 rulli (ridotti a 14) [1].
Preceduto da una mirabolante campagna pubblicitaria [2], Foolish Wives decreta il successo di Erich Von Stroheim, marcandolo al contempo come “ regista cinematografico più costoso del mondo “.
Ad innescare il mito di questa straordinaria prodigalità, le enormi spese sostenute per ricostruire, negli studi di Hollywood, un “ concentrato “ della vera Montecarlo, con tanto di Casino e Place Centrale [3].
La predilezione per i paesaggi naturali riscontrata in Greed [4] lascia dunque spazio ad una maniacale attenzione per le scenografie, attenzione indice della volontà (o meglio, della pretesa) di riprodurre il mondo, di evocarne il doppio, anziché “ limitarsi “ semplicemente a riprenderlo.
Delirio di raddoppiamento della realtà come atto di ri-fondazione della stessa, duplicazione come desiderio di creare qualcosa che sia più vero del preteso vero, questo è realismo per Stroheim.
Non solo. Realismo è anche coscienza della vita insita negli oggetti inanimati, oggetti che, introdotti sotto forma di particolari, contribuiscono ad accentuare l’atmosfera psicologica della scena [5].
Si veda, per esempio, il libro che Madame Hughes lascia cadere accanto ad un ufficiale dalla mantellina nera, in attesa che egli lo raccolga [6].
Con apparente mancanza di galanteria, l’uomo rimane immobile, ed immobile rimarrà poco dopo, in ascensore, quando la borsa della signorina Hughes cadrà improvvisamente ai suoi piedi.
In un successivo incontro/scontro, la nobile donna urta l’ufficiale, facendogli cadere la mantellina. Per vendicarsi del torto subito, accenna a procedere oltre … ma ecco subentrare il particolare delle maniche vuote [7], particolare che accentua la drammaticità della scena, rivelando al contempo l’imbarazzante equivoco commesso da Madame Hughes.
Da qui possiamo desumere un altro elemento significativo: la predilezione di Stroheim per gli storpi, gli zoppi, i gobbi, i folli … la stessa predilezione che spingerà Karamzin ad avventarsi sulla disturbata figli di Ventucci.
Analizzando più dettagliatamente la pellicola, possiamo riscontrare una serie di analogie e differenze rispetto al precedente Blind Husbands.
Profondità di campo e fissità della m.d.p dominano (ancora) la messa in scena.
I movimenti di macchina sono (di nuovo) ridotti al minimo e principalmente finalizzati ad assecondare i movimenti di uomini o mezzi.
Si vedano, per esempio, i brevi camera-car (se così si possono definire) che “ accompagnano “ il tragitto compiuto dalle macchine dei pompieri, pompieri chiamati ad intervenire in seguito all’incendio divampato nella villa del conte Karamzin.
Da sottolineare poi lo splendido carrello che stringe sul volto della domestica, cogliendo i barlumi di disperazione e follia che la indurranno a tentare di uccidere il suo stesso padrone.
Permane la simulazione di soggettive degli attori tramite panoramiche verticali [8].
Le inquadrature sono nel complesso bilanciate e sfruttano sia l’illuminazione naturale, che quella artificiale, il cui utilizzo è molto più frequente [9].
Alcune scene lasciano spazio alla sperimentazione di una luce di taglio [10], i cui marcati contrasti sembrano quasi ricordare il noir.
La m.d.p è solitamente posta all’altezza dello sguardo umano [11], a riprendere i soggetti in campo parallelamente al terreno. Non mancano tuttavia modalità d’angolazione insolite [12], in gran parte funzionali allo svolgersi dell’azione [13].
Tagli di ripresa più ampi, che contribuiscono ad esaltare la magnificenza delle scenografie, si alternano a piani di ripresa più stretti, che accarezzano i volti dei personaggi mostrando al contempo le loro reazioni [14].
I dialoghi si articolano attraverso inquadrature corrispondenti, che innescano giochi di sguardi tematicamente riconducibili a Blind Husbands [15].
Permane il rispetto dei raccordi, così come il ricorso al montaggio alternato [16].
Estremamente frequente l’utilizzo dell’iride [17].
Da sottolineare poi la “ contestualizzata “ introduzione di inquadrature relative ad animali, pratica che troverà ampio sviluppo in Greed [18].
È infine doveroso osservare come il cinico seduttore Karamzin/Stroheim si contraddistingua per un un’economia di gesti, un rifiuto di dissipare emozioni, assolutamente unici nella cinematografia del periodo [19].
Ed è proprio condensando l’erotismo nel gesto che Stroheim riesce a sfuggire alla stretta del codice Hays, inscenando una rappresentazione mordace ed ironica della vita com’egli l’aveva vissuta in molte città e paesi del mondo .
_______________________________________________
[1] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 88).
Il progetto originale (ideato da Stroheim) prevedeva che il film fosse diviso in due parti (di circa un’ora e mezza ciascuna) da proiettarsi l’una di seguito all’altra con un intervallo in mezzo.
A pellicola ultimata, Irving Thalberg (uno dei direttori della Universal) impose che il film fosse ridotto alla metà. Ai drastici tagli operati in sala di montaggio se ne aggiunsero ben presto altri, in prevalenza commissionati dalla Federation of Women of America.
141 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Ermitage Cinema.
[2] Foolish Wives viene presentato dalla Universal come “ il primo film da un milione di dollari “.
In un punto nevralgico di New York viene fatto allestire un gigantesco cartellone che annunzia: “Universal Film Company - Carl Laemmle ed Erich Von $troheim - Femmine Folli - Costo fino ad oggi: 947.382 dollari. “
È la prima volta che il costo di un film viene esplicitamente reclamizzato, entrando a far parte delle ragioni che dovrebbero spingere il pubblico a recarsi al cinema.
[3] Il tutto a grandezza naturale.
[4] E qui a tratti ancor presente (si vedano, per esempio, gli incantevoli scorci di riviera che fanno da sfondo alla maestosa villa del conte Karamzin).
[5] Questa pratica dell’introduzione di particolari apparentemente insignificanti troverà il suo massimo sviluppo in Greed (Rapacità, 1923).
[6] In una sottile e geniale autocitazione, Stroheim intitola il libro Foolish Wives , il cui autore è egli stesso.
[7] L’ufficiale è uno storpio.
[8] Si veda, per esempio, la soggettiva di Karamzin (una panoramica dal basso verso l’alto) ad esplorare il corpo della giovane figlia di Ventucci.
[9] L’assiduo ricorso all’illuminazione artificiale è da attribuirsi all’incremento del numero di scene notturne.
[10] Si veda, per esempio, la prima “ incursione “ di Karamzin nella camera da letto della figlia di Ventucci.
[11] O leggermente più sotto (all’altezza delle spalle).
[12] Tagli di ripresa obliqui dall’alto con pavimento o terreno a chiudere la profondità di campo.
[13] Si vedano, per esempio, i numerosi tagli obliqui dall’alto che mostrano gli ospiti di Karamzin accorrere sotto il balcone della villa poco dopo l’inizio dell’incendio.
[14] Con tagli di ripresa “ ampi “ intendo, per esempio, i Campi Lunghi.
Con piani di ripresa “ stretti “ intendo Primi Piani Allargati e Primi Piani, il cui utilizzo (rispetto a Blind Husbands) si intensifica notevolmente.
L’alternanza tra Campi Lunghi e piani più a ridosso dei personaggi è sicuramente attribuibile a David W. Griffith (si veda, per esempio, il già citato The Massacre).
[15] La tematica che unifica (ed in un certo qual modo “ legittima “) i giochi di sguardi che si consumano in entrambi i film è l’atteggiamento “ distratto “ del marito che, trascurando la moglie, la predispone alle avances di uno sconosciuto seduttore.
[16] Montaggio alternato che abbiamo già detto essere stato desunto dalla stile di David W. Griffith.
[17] Altro elemento tipicamente griffithiano.
[18] Esplicita “ anticipazione “ di Greed è la liberazione dell’uccellino da parte della domestica poco prima di appiccare l’incendio, ma si veda anche l’intrigante paragone Karamzin/rospo - frate/uccello notturno che prende corpo durante il corso della permanenza del conte presso la modesta dimora di Mamma Garoupe.
L’ardito accostamento di inquadrature paragona il vigile sguardo del frate alle doti visive dell’uccello notturno, relegando Karamzin al ruolo di semplice rospo, viscido essere la cui impresa (avventarsi su di una fanciulla inerme) sarà impossibilitata proprio dall’attenta veglia del viandante venuto dal nulla.
[19] A dimostrazione di ciò basti ricordare la studiata parsimonia con cui Karamzin lascia cadere le false lacrime che dovrebbero indurre la domestica a consegnargli tutti i suoi risparmi. Una geniale avarizia nelle secrezioni, che ottiene immediatamente l’effetto desiderato.
1921
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Carl Laemmle per la Universal.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim.
Fotografia: Ben F. Reynolds, William H. Daniels (bianco e nero).
Montaggio: Erich Von Stroheim, Arthur D. Ripley.
Scenografia: Erich Von Stroheim, Richard Day.
Cast: Maude George (principessa Olga Petchnikoff), Mae Busch (principessa Vera Petchnikoff), Erich Von Stroheim (conte Karamzin), Rudolph Christians (Andrew J. Hughes), Miss Dupont (sua moglie), Dale Fuller (Maruschka, la domestica), Cesare Gravina (Ventucci, il falsario), Malvine Polo (sua figlia).
Inoltre compaiono: Al Edmundsen, C. J. Allen.
Durata: 21 rulli (ridotti a 14) [1].
Preceduto da una mirabolante campagna pubblicitaria [2], Foolish Wives decreta il successo di Erich Von Stroheim, marcandolo al contempo come “ regista cinematografico più costoso del mondo “.
Ad innescare il mito di questa straordinaria prodigalità, le enormi spese sostenute per ricostruire, negli studi di Hollywood, un “ concentrato “ della vera Montecarlo, con tanto di Casino e Place Centrale [3].
La predilezione per i paesaggi naturali riscontrata in Greed [4] lascia dunque spazio ad una maniacale attenzione per le scenografie, attenzione indice della volontà (o meglio, della pretesa) di riprodurre il mondo, di evocarne il doppio, anziché “ limitarsi “ semplicemente a riprenderlo.
Delirio di raddoppiamento della realtà come atto di ri-fondazione della stessa, duplicazione come desiderio di creare qualcosa che sia più vero del preteso vero, questo è realismo per Stroheim.
Non solo. Realismo è anche coscienza della vita insita negli oggetti inanimati, oggetti che, introdotti sotto forma di particolari, contribuiscono ad accentuare l’atmosfera psicologica della scena [5].
Si veda, per esempio, il libro che Madame Hughes lascia cadere accanto ad un ufficiale dalla mantellina nera, in attesa che egli lo raccolga [6].
Con apparente mancanza di galanteria, l’uomo rimane immobile, ed immobile rimarrà poco dopo, in ascensore, quando la borsa della signorina Hughes cadrà improvvisamente ai suoi piedi.
In un successivo incontro/scontro, la nobile donna urta l’ufficiale, facendogli cadere la mantellina. Per vendicarsi del torto subito, accenna a procedere oltre … ma ecco subentrare il particolare delle maniche vuote [7], particolare che accentua la drammaticità della scena, rivelando al contempo l’imbarazzante equivoco commesso da Madame Hughes.
Da qui possiamo desumere un altro elemento significativo: la predilezione di Stroheim per gli storpi, gli zoppi, i gobbi, i folli … la stessa predilezione che spingerà Karamzin ad avventarsi sulla disturbata figli di Ventucci.
Analizzando più dettagliatamente la pellicola, possiamo riscontrare una serie di analogie e differenze rispetto al precedente Blind Husbands.
Profondità di campo e fissità della m.d.p dominano (ancora) la messa in scena.
I movimenti di macchina sono (di nuovo) ridotti al minimo e principalmente finalizzati ad assecondare i movimenti di uomini o mezzi.
Si vedano, per esempio, i brevi camera-car (se così si possono definire) che “ accompagnano “ il tragitto compiuto dalle macchine dei pompieri, pompieri chiamati ad intervenire in seguito all’incendio divampato nella villa del conte Karamzin.
Da sottolineare poi lo splendido carrello che stringe sul volto della domestica, cogliendo i barlumi di disperazione e follia che la indurranno a tentare di uccidere il suo stesso padrone.
Permane la simulazione di soggettive degli attori tramite panoramiche verticali [8].
Le inquadrature sono nel complesso bilanciate e sfruttano sia l’illuminazione naturale, che quella artificiale, il cui utilizzo è molto più frequente [9].
Alcune scene lasciano spazio alla sperimentazione di una luce di taglio [10], i cui marcati contrasti sembrano quasi ricordare il noir.
La m.d.p è solitamente posta all’altezza dello sguardo umano [11], a riprendere i soggetti in campo parallelamente al terreno. Non mancano tuttavia modalità d’angolazione insolite [12], in gran parte funzionali allo svolgersi dell’azione [13].
Tagli di ripresa più ampi, che contribuiscono ad esaltare la magnificenza delle scenografie, si alternano a piani di ripresa più stretti, che accarezzano i volti dei personaggi mostrando al contempo le loro reazioni [14].
I dialoghi si articolano attraverso inquadrature corrispondenti, che innescano giochi di sguardi tematicamente riconducibili a Blind Husbands [15].
Permane il rispetto dei raccordi, così come il ricorso al montaggio alternato [16].
Estremamente frequente l’utilizzo dell’iride [17].
Da sottolineare poi la “ contestualizzata “ introduzione di inquadrature relative ad animali, pratica che troverà ampio sviluppo in Greed [18].
È infine doveroso osservare come il cinico seduttore Karamzin/Stroheim si contraddistingua per un un’economia di gesti, un rifiuto di dissipare emozioni, assolutamente unici nella cinematografia del periodo [19].
Ed è proprio condensando l’erotismo nel gesto che Stroheim riesce a sfuggire alla stretta del codice Hays, inscenando una rappresentazione mordace ed ironica della vita com’egli l’aveva vissuta in molte città e paesi del mondo .
_______________________________________________
[1] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 88).
Il progetto originale (ideato da Stroheim) prevedeva che il film fosse diviso in due parti (di circa un’ora e mezza ciascuna) da proiettarsi l’una di seguito all’altra con un intervallo in mezzo.
A pellicola ultimata, Irving Thalberg (uno dei direttori della Universal) impose che il film fosse ridotto alla metà. Ai drastici tagli operati in sala di montaggio se ne aggiunsero ben presto altri, in prevalenza commissionati dalla Federation of Women of America.
141 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Ermitage Cinema.
[2] Foolish Wives viene presentato dalla Universal come “ il primo film da un milione di dollari “.
In un punto nevralgico di New York viene fatto allestire un gigantesco cartellone che annunzia: “Universal Film Company - Carl Laemmle ed Erich Von $troheim - Femmine Folli - Costo fino ad oggi: 947.382 dollari. “
È la prima volta che il costo di un film viene esplicitamente reclamizzato, entrando a far parte delle ragioni che dovrebbero spingere il pubblico a recarsi al cinema.
[3] Il tutto a grandezza naturale.
[4] E qui a tratti ancor presente (si vedano, per esempio, gli incantevoli scorci di riviera che fanno da sfondo alla maestosa villa del conte Karamzin).
[5] Questa pratica dell’introduzione di particolari apparentemente insignificanti troverà il suo massimo sviluppo in Greed (Rapacità, 1923).
[6] In una sottile e geniale autocitazione, Stroheim intitola il libro Foolish Wives , il cui autore è egli stesso.
[7] L’ufficiale è uno storpio.
[8] Si veda, per esempio, la soggettiva di Karamzin (una panoramica dal basso verso l’alto) ad esplorare il corpo della giovane figlia di Ventucci.
[9] L’assiduo ricorso all’illuminazione artificiale è da attribuirsi all’incremento del numero di scene notturne.
[10] Si veda, per esempio, la prima “ incursione “ di Karamzin nella camera da letto della figlia di Ventucci.
[11] O leggermente più sotto (all’altezza delle spalle).
[12] Tagli di ripresa obliqui dall’alto con pavimento o terreno a chiudere la profondità di campo.
[13] Si vedano, per esempio, i numerosi tagli obliqui dall’alto che mostrano gli ospiti di Karamzin accorrere sotto il balcone della villa poco dopo l’inizio dell’incendio.
[14] Con tagli di ripresa “ ampi “ intendo, per esempio, i Campi Lunghi.
Con piani di ripresa “ stretti “ intendo Primi Piani Allargati e Primi Piani, il cui utilizzo (rispetto a Blind Husbands) si intensifica notevolmente.
L’alternanza tra Campi Lunghi e piani più a ridosso dei personaggi è sicuramente attribuibile a David W. Griffith (si veda, per esempio, il già citato The Massacre).
[15] La tematica che unifica (ed in un certo qual modo “ legittima “) i giochi di sguardi che si consumano in entrambi i film è l’atteggiamento “ distratto “ del marito che, trascurando la moglie, la predispone alle avances di uno sconosciuto seduttore.
[16] Montaggio alternato che abbiamo già detto essere stato desunto dalla stile di David W. Griffith.
[17] Altro elemento tipicamente griffithiano.
[18] Esplicita “ anticipazione “ di Greed è la liberazione dell’uccellino da parte della domestica poco prima di appiccare l’incendio, ma si veda anche l’intrigante paragone Karamzin/rospo - frate/uccello notturno che prende corpo durante il corso della permanenza del conte presso la modesta dimora di Mamma Garoupe.
L’ardito accostamento di inquadrature paragona il vigile sguardo del frate alle doti visive dell’uccello notturno, relegando Karamzin al ruolo di semplice rospo, viscido essere la cui impresa (avventarsi su di una fanciulla inerme) sarà impossibilitata proprio dall’attenta veglia del viandante venuto dal nulla.
[19] A dimostrazione di ciò basti ricordare la studiata parsimonia con cui Karamzin lascia cadere le false lacrime che dovrebbero indurre la domestica a consegnargli tutti i suoi risparmi. Una geniale avarizia nelle secrezioni, che ottiene immediatamente l’effetto desiderato.
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Queen Kelly
Posted : 13 years, 8 months ago on 3 March 2011 03:30 (A review of Queen Kelly (1929))Queen Kelly (Queen Kelly) [1]:
1928
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Gloria Swanson Pictures.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim.
Fotografia: Gordon Pollock, Paul Ivano (bianco e nero).
Montaggio: Viola Lawrence.
Scenografia: Erich Von Stroheim, Harold Miles.
Cast: Gloria Swanson (Patricia Kelly), Walter Byron (principe Wolfram), Seena Owen (Regina V), Sylvia Ashton (zia di Patricia), Tully Marshall (Jan Vryheid), Sidney Bracey (cameriere di Wolfram), William Von Brincken (aiutante di Wolfram).
Durata: 10 rulli (incompiuto) [2].
Pellicola che segna la fine dell’epoca del muto, nonché l’inizio del declino della carriera (registica) di Stroheim.
Finanziato dalla Gloria Swanson Pictures [3], Queen Kelly si caratterizza per la travagliata storia produttiva, conclusasi bruscamente dopo l’introduzione (da parte della Warner) del primo sistema di sonorizzazione.
Intenzionato a realizzare il suo più grande capolavoro, Stroheim concepisce un ambizioso progetto, che prevede la suddivisione del film in due parti: un prologo - ambientato in Europa - ed una parte più consistente (circa i due terzi del totale) - ambientata in Africa.
A Stroheim viene data carta bianca, ma a soli tre mesi dall’inizio delle riprese (più precisamente, al completamento del decimo rullo) [4], la lavorazione si interrompe. Ad arrestare la produzione è il parere di Joseph Kennedy, che dopo aver assistito alla prima di The Jazz Singer (Il cantante di Jazz, 1928), di Al Jolson [5], dichiara: “ Il più brutto film sonoro sarà sempre migliore del migliore dei film muti “ [6].
Strohem si rende disponibile a concludere il film come muto, per poi distribuirlo con un accompagnamento musicale appositamente sincronizzato, ma la sua proposta viene respinta, ed il suo ritorno negato.
Decisa a ricavare qualche guadagno dalla pellicola [7], la Swanson appiccica un finale “ apocrifo “ al prologo ultimato da Stroheim, senza rispettare minimamente lo script originale [8]. Questa versione del film viene presentata in Europa, ma non negli Stati Uniti, dove l’unica copia “ autorizzata “ rimane in possesso del Museum of Modern Art [9].
Visionando la copia del film oggi disponibile [10], possiamo individuare una serie di analogie e differenze rispetto ai precedenti Blind Husbands e Foolish Wives.
La supremazia della m.d.p fissa viene nettamente meno, con conseguente moltiplicarsi dei movimenti di macchina [11]. Elaborati carrelli scoprono il corteo di orfanelle, per poi accompagnare, spesso in soggettiva, la “ galeotta “ conversazione tra Wolfram e Kelly; singolari camera-car assecondano l’avanzare dello squadrone del principe, sottolineandone l’imponenza; un complesso movimento di macchina ci introduce nel convento assieme a Wolfram, simulando il suo disorientamento nel ricercare l’amata … e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
La m.d.p è sovente collocata all’altezza dello sguardo umano, ma non esita a porsi più in basso [12] o più in alto ove necessario. Nel sistemarsi al di sopra degli oggetti/personaggi filmati, la m.d.p ci regala spesso tagli di ripresa obliqui dall’alto [13], le cui funzioni sono principalmente due: mostrare la magnificenza delle scenografie; catturare particolari atti a rafforzare l’atmosfera psicologica della scena. Particolari sono i lussuosi oggetti che circondano il giaciglio della Regina V, ma anche il dettaglio che mostra la biancheria “ caduta “ di Kelly, “intima “ finezza che ci consente di analizzare lo specifico mezzo di cui il regista si serve per innescare il piacere filmico: la sutura tardiva.
Ricorrendo ad un tipo di scrittura perversa, Stroheim tarda a richiudere una miriade di aperture proliferanti nel testo, lasciando che le tensioni rimango tali per lungo tempo [14] prima di trovare la loro risoluzione.
Si vedano appunto le “ famose “ mutandine di Kelly, che tornano alla legittima proprietaria solo dopo essere state oggetto della pubblica attenzione [15].
Al frequente utilizzo dei Primi Piani [16], si aggiunge un abile ricorso ai Primissimi; scelte che evidenziano la volontà di giocare maggiormente sul personaggio, il tutto a discapito della profondità di campo.
Permane il rispetto dei raccordi, così come l’articolazione dei dialoghi attraverso inquadrature corrispondenti.
L’illuminazione naturale lascia ampio spazio a quella artificiale, che appare sovente contrastata.
Singolare la presenza della diva Gloria Swanson [17], che non mina tuttavia l’originalità del film.
Queen Kelly rimane dunque l’ennesima testimonianza della straordinaria grandezza di Stroheim, grandezza che, nonostante tutto, è riuscita a giungere fino a noi.
_______________________________________________
[1] Talvolta tradotto in La regina Kelly.
[2] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 90).
100 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Dcult (Ermitage).
Specifico che si tratta di un’edizione critica, in cui la parte africana del film è stata ricostruita non solo attraverso il girato, ma anche attraverso didascalie e foto di scena. Poiché il suddetto girato rispetta lo script originale di Stroheim, possiamo ipotizzare si tratti di materiale inedito, recuperato solo di recente (l’edizione in questione è stata approntata negli anni ’90). Questa tesi è avvalorata dal fatto che, in una breve serie di didascalie esplicative che precedono il film, viene menzionato l’utilizzo di “ immagini, didascalie e tutto il materiale della produzione “.
Nell’analisi che segue farò riferimento soprattutto alla prima parte, che essendo più completa è a mio parere più sottoponibile a giudizio.
Ho scelto deliberatamente di non riportare in nota la travagliata storia produttiva del film, in quanto da me ritenuta parte integrante della stessa analisi.
[3] Casa di produzione gestita dalla stella del muto Gloria Swanson che, in società con Joseph Kennedy, aveva iniziato a produrre personalmente i suoi film.
[4] I primi dieci rulli coincidono con il prologo.
[5] Il primo film sonoro.
[6] Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 113.
Le voci secondo cui la lavorazione del film sarebbe stata interrotta a causa di gravi contrasti interni sono dunque irrimediabilmente false. Come Stroheim stesso dichiara: “ […] Fu la presentazione del primo film sonoro di Al Jolson a interrompere la produzione di Queen Kelly, e non vi fu nessun altra ragione. Tutte le storie di contrasti fra me e Gloria Swanson sono frutto di pura invenzione. […] Siamo ancora ottimi amici e il fatto che il film dovette essere abbandonato non fu colpa né sua né mia, ma semplicemente uno dei tanti infelici risultati dell’invenzione del cinema sonoro. “ (Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, op. cit., p. 111).
[7] Con pellicola intendo qui i dieci rulli girati da Stroheim, di cui Gloria era venuta in possesso grazie all’intercessione di Joseph Kennedy.
[8] Nel finale in questione, Kelly si getta nel fiume, rimanendo vittima del suo disperato gesto. Venuta a conoscenza del suicidio di Kelly, la Regina V libera Wolfram dalla prigione, concedendogli di recarsi al convento per sposare l’amata. Scoperto l’inganno, il principe si suicida a sua volta, nella speranza che la morte possa riunirlo alla sua adorata Patricia.
[9] Relativamente alla versione della Swanson, Stroheim dichiara: “ […] Molte volte in questa versione, montata dalla Swanson, si vedono scene interminabili di cui io intendevo presentare solo un brevissimo scorcio. Per questa ragione il film appare pesante e strascicato e, nella sua attuale versione, costituisce un’amarissima delusione. Non solo, ma si tratta soltanto di un terzo circa del lavoro che avevo progettato. […] Dal canto mio, non permisi che questo film non terminato fosse presentato negli Stati Uniti. “ (Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, op. cit., pp. 111, 114).
[10] Per tutte le informazioni relative alla copia in questione vedere la nota 2.
[11] Considerazione valida solo per la parte europea del film, poiché in quella africana i movimenti di macchina sono ridotti al minimo.
[12] Di poco sopra l’altezza del pavimento.
[13] Già riscontrati in Blind Husbands e Foolish Wives.
[14] O meglio, per un tempo insopportabilmente elevato.
[15] Le mutandine scivolano a terra, divenendo oggetto di derisione da parte del principe e del suo squadrone; alterata, Kelly le raccoglie, per poi gettarle in faccia principe stesso, che ne aspira profondamente l’odore.
Poco dopo, Wolfram si accosta nuovamente alla ragazza, che tramite intriganti sguardi riesce a farsi restituire l’indumento in questione.
[16] Già riscontrato in Blind Husbands e Foolish Wives.
[17] Come sottolinea Alessandro Cappabianca: “ […] Stroheim non adoperava mai divi nei suoi film: era lui che creava i divi. ” (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, op. cit., p. 54).
1928
USA
Regia: Erich Von Stroheim.
Produzione: Gloria Swanson Pictures.
Soggetto e sceneggiatura: Erich Von Stroheim.
Fotografia: Gordon Pollock, Paul Ivano (bianco e nero).
Montaggio: Viola Lawrence.
Scenografia: Erich Von Stroheim, Harold Miles.
Cast: Gloria Swanson (Patricia Kelly), Walter Byron (principe Wolfram), Seena Owen (Regina V), Sylvia Ashton (zia di Patricia), Tully Marshall (Jan Vryheid), Sidney Bracey (cameriere di Wolfram), William Von Brincken (aiutante di Wolfram).
Durata: 10 rulli (incompiuto) [2].
Pellicola che segna la fine dell’epoca del muto, nonché l’inizio del declino della carriera (registica) di Stroheim.
Finanziato dalla Gloria Swanson Pictures [3], Queen Kelly si caratterizza per la travagliata storia produttiva, conclusasi bruscamente dopo l’introduzione (da parte della Warner) del primo sistema di sonorizzazione.
Intenzionato a realizzare il suo più grande capolavoro, Stroheim concepisce un ambizioso progetto, che prevede la suddivisione del film in due parti: un prologo - ambientato in Europa - ed una parte più consistente (circa i due terzi del totale) - ambientata in Africa.
A Stroheim viene data carta bianca, ma a soli tre mesi dall’inizio delle riprese (più precisamente, al completamento del decimo rullo) [4], la lavorazione si interrompe. Ad arrestare la produzione è il parere di Joseph Kennedy, che dopo aver assistito alla prima di The Jazz Singer (Il cantante di Jazz, 1928), di Al Jolson [5], dichiara: “ Il più brutto film sonoro sarà sempre migliore del migliore dei film muti “ [6].
Strohem si rende disponibile a concludere il film come muto, per poi distribuirlo con un accompagnamento musicale appositamente sincronizzato, ma la sua proposta viene respinta, ed il suo ritorno negato.
Decisa a ricavare qualche guadagno dalla pellicola [7], la Swanson appiccica un finale “ apocrifo “ al prologo ultimato da Stroheim, senza rispettare minimamente lo script originale [8]. Questa versione del film viene presentata in Europa, ma non negli Stati Uniti, dove l’unica copia “ autorizzata “ rimane in possesso del Museum of Modern Art [9].
Visionando la copia del film oggi disponibile [10], possiamo individuare una serie di analogie e differenze rispetto ai precedenti Blind Husbands e Foolish Wives.
La supremazia della m.d.p fissa viene nettamente meno, con conseguente moltiplicarsi dei movimenti di macchina [11]. Elaborati carrelli scoprono il corteo di orfanelle, per poi accompagnare, spesso in soggettiva, la “ galeotta “ conversazione tra Wolfram e Kelly; singolari camera-car assecondano l’avanzare dello squadrone del principe, sottolineandone l’imponenza; un complesso movimento di macchina ci introduce nel convento assieme a Wolfram, simulando il suo disorientamento nel ricercare l’amata … e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
La m.d.p è sovente collocata all’altezza dello sguardo umano, ma non esita a porsi più in basso [12] o più in alto ove necessario. Nel sistemarsi al di sopra degli oggetti/personaggi filmati, la m.d.p ci regala spesso tagli di ripresa obliqui dall’alto [13], le cui funzioni sono principalmente due: mostrare la magnificenza delle scenografie; catturare particolari atti a rafforzare l’atmosfera psicologica della scena. Particolari sono i lussuosi oggetti che circondano il giaciglio della Regina V, ma anche il dettaglio che mostra la biancheria “ caduta “ di Kelly, “intima “ finezza che ci consente di analizzare lo specifico mezzo di cui il regista si serve per innescare il piacere filmico: la sutura tardiva.
Ricorrendo ad un tipo di scrittura perversa, Stroheim tarda a richiudere una miriade di aperture proliferanti nel testo, lasciando che le tensioni rimango tali per lungo tempo [14] prima di trovare la loro risoluzione.
Si vedano appunto le “ famose “ mutandine di Kelly, che tornano alla legittima proprietaria solo dopo essere state oggetto della pubblica attenzione [15].
Al frequente utilizzo dei Primi Piani [16], si aggiunge un abile ricorso ai Primissimi; scelte che evidenziano la volontà di giocare maggiormente sul personaggio, il tutto a discapito della profondità di campo.
Permane il rispetto dei raccordi, così come l’articolazione dei dialoghi attraverso inquadrature corrispondenti.
L’illuminazione naturale lascia ampio spazio a quella artificiale, che appare sovente contrastata.
Singolare la presenza della diva Gloria Swanson [17], che non mina tuttavia l’originalità del film.
Queen Kelly rimane dunque l’ennesima testimonianza della straordinaria grandezza di Stroheim, grandezza che, nonostante tutto, è riuscita a giungere fino a noi.
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[1] Talvolta tradotto in La regina Kelly.
[2] Faccio qui riferimento alla durata riportata da Alessandro Cappabianca nel suo libro Erich Von Stroheim (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 90).
100 minuti è invece la durata riportata sulla copia del film da me esaminata, edita da Dcult (Ermitage).
Specifico che si tratta di un’edizione critica, in cui la parte africana del film è stata ricostruita non solo attraverso il girato, ma anche attraverso didascalie e foto di scena. Poiché il suddetto girato rispetta lo script originale di Stroheim, possiamo ipotizzare si tratti di materiale inedito, recuperato solo di recente (l’edizione in questione è stata approntata negli anni ’90). Questa tesi è avvalorata dal fatto che, in una breve serie di didascalie esplicative che precedono il film, viene menzionato l’utilizzo di “ immagini, didascalie e tutto il materiale della produzione “.
Nell’analisi che segue farò riferimento soprattutto alla prima parte, che essendo più completa è a mio parere più sottoponibile a giudizio.
Ho scelto deliberatamente di non riportare in nota la travagliata storia produttiva del film, in quanto da me ritenuta parte integrante della stessa analisi.
[3] Casa di produzione gestita dalla stella del muto Gloria Swanson che, in società con Joseph Kennedy, aveva iniziato a produrre personalmente i suoi film.
[4] I primi dieci rulli coincidono con il prologo.
[5] Il primo film sonoro.
[6] Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 113.
Le voci secondo cui la lavorazione del film sarebbe stata interrotta a causa di gravi contrasti interni sono dunque irrimediabilmente false. Come Stroheim stesso dichiara: “ […] Fu la presentazione del primo film sonoro di Al Jolson a interrompere la produzione di Queen Kelly, e non vi fu nessun altra ragione. Tutte le storie di contrasti fra me e Gloria Swanson sono frutto di pura invenzione. […] Siamo ancora ottimi amici e il fatto che il film dovette essere abbandonato non fu colpa né sua né mia, ma semplicemente uno dei tanti infelici risultati dell’invenzione del cinema sonoro. “ (Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, op. cit., p. 111).
[7] Con pellicola intendo qui i dieci rulli girati da Stroheim, di cui Gloria era venuta in possesso grazie all’intercessione di Joseph Kennedy.
[8] Nel finale in questione, Kelly si getta nel fiume, rimanendo vittima del suo disperato gesto. Venuta a conoscenza del suicidio di Kelly, la Regina V libera Wolfram dalla prigione, concedendogli di recarsi al convento per sposare l’amata. Scoperto l’inganno, il principe si suicida a sua volta, nella speranza che la morte possa riunirlo alla sua adorata Patricia.
[9] Relativamente alla versione della Swanson, Stroheim dichiara: “ […] Molte volte in questa versione, montata dalla Swanson, si vedono scene interminabili di cui io intendevo presentare solo un brevissimo scorcio. Per questa ragione il film appare pesante e strascicato e, nella sua attuale versione, costituisce un’amarissima delusione. Non solo, ma si tratta soltanto di un terzo circa del lavoro che avevo progettato. […] Dal canto mio, non permisi che questo film non terminato fosse presentato negli Stati Uniti. “ (Peter Noble, Fuggiasco da Hollywood: vita e opere di E. von Stroheim, op. cit., pp. 111, 114).
[10] Per tutte le informazioni relative alla copia in questione vedere la nota 2.
[11] Considerazione valida solo per la parte europea del film, poiché in quella africana i movimenti di macchina sono ridotti al minimo.
[12] Di poco sopra l’altezza del pavimento.
[13] Già riscontrati in Blind Husbands e Foolish Wives.
[14] O meglio, per un tempo insopportabilmente elevato.
[15] Le mutandine scivolano a terra, divenendo oggetto di derisione da parte del principe e del suo squadrone; alterata, Kelly le raccoglie, per poi gettarle in faccia principe stesso, che ne aspira profondamente l’odore.
Poco dopo, Wolfram si accosta nuovamente alla ragazza, che tramite intriganti sguardi riesce a farsi restituire l’indumento in questione.
[16] Già riscontrato in Blind Husbands e Foolish Wives.
[17] Come sottolinea Alessandro Cappabianca: “ […] Stroheim non adoperava mai divi nei suoi film: era lui che creava i divi. ” (Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, op. cit., p. 54).
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